Capita di confondere Pier Luigi Bersani con Maurizio Crozza, Matteo Renzi con Angelino Alfano (e dai, per l’età, mica per cosa?), Enrico Letta con lo zio Gianni. E capita, ieri, di guardare la manifestazione del Partito democratico di piazza San Giovanni come un programma televisivo che, per usanza di partito, viene trasmesso dal satellite di YouDem, un’emittente che si fa notare una volta l’anno. La protesta (o proposta), la difesa dei valori Costituzionali (o l’accusa al solito B.) viene preparata sempre con la stessa accortezza con cui Bersani annuncia di aver discusso di “piattaforma programmatica”. Cioè, che vuol dire? Cioè, che messaggio lascia? Piuttosto vecchio. Anche se quel pubblico vasto e colorato fa bene, a prescindere direbbe Totò.
Un’immagine è forte se ti colpisce perché aggiunge qualcosa o ti pervade con la sua forza. L’immagine di San Giovanni è vecchia. Come è vecchio l’eloquio burocratico di Bersani che, umile e combattivo, prova a modificare l’accento e se stesso. A differenza di quel che pensa Renzi, il vecchio va oltre la carta d’identità. Non è una data. E per certi aspetti, anche visivi, Renzi è trapassato. Ricorda il Veltroni del “ma anche”, del “principale esponente dello schieramento a noi avverso”, del “ritornello di Jovanotti e dei libri di Marcuse”. L’aggiornamento professionale è il braccio destro: non più Goffredo Bettini, ma Giorgio Gori.
Torniamo in piazza San Giovanni. C’è musica, tanta musica. C’è Roberto Vecchioni, immancabile. Ci sono le canzoni registrate dei Negrita e di Neffa. Ci sono testimonianze, problemi di audio, di suono, di video. La liturgia non cambia, e fai fatica a resistere incollato davanti al televisore. Prima ci sono quelli del partito, poi c’è il partito con l’intervento conclusivo, ultimo, perentorio del segretario Bersani che, in queste drammatiche ore del berlusconismo crepuscolare, dovrebbe assumere con i suoi colori grigi la faccia del nuovo, del domani, del futuro. Bersani ha scelto una bella cravatta, rosso pompeiano in onore dei colori sociali dei romanisti oppure, più probabile, del mai dimenticato Pci.
Bersani si sbraccia per dire che il Cavaliere ci abbandona in mezzo a una tempesta, che, anzi, se saluta forse il tempo migliora. E che noi, noi del Pd, caro italiano, possiamo ridarti dignità. Tutto giusto. Ma tutto maledettamente già ascoltato. Siccome parla anche in televisione, e la televisione ha contribuito al regime mediatico di B., Bersani promette che non solo faranno riforme per il “conflitto d’interessi”, ma anche (e qui Veltroni insegna) per le “incompatibilità”. Qualsiasi cosa voglia dire, va benissimo.
L’applauso chiude il pomeriggio che, per rispecchiare Bersani, regala un cielo sbiadito eppure pieno di carica agonistica. Il segretario fa un ciao con la mano e sventola una bandiera tricolore, mentre in platea ci sono bandiere diverse che rappresentano le divisioni (o le tante risorse) nel Partito democratico. Purtroppo aspettandosi esattamente questi discorsi e queste emozioni, l’unica notizia del giorno è la contestazione a Renzi. E ancora una volta, l’estrema e finale, sarà B. a dover fare e disfare per dirci addio.
Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2011