Un disastro. Anzi, un collasso senza precedenti. Come senza precedenti, del resto, sono i continui record registrati dallo spread Btp/Bund, indicatore ormai impazzito di un contesto di mercato che fino a pochi giorni fa sembrava pura fantascienza. Bastano poche cifre per segnare il passo di una delle giornate più drammatiche della nostra storia finanziaria. Il differenziale di rendimento tra i bond italiani a dieci anni e gli equivalenti tedeschi viaggia a quota 551 punti base. La borsa di Milano cede il 3,78% in una giornata segnata dal tracollo generale dei bancari. Le osservate speciali di sempre, Unicredit e Intesa, bruciano i guadagni di ieri perdendo rispettivamente il 6,81 e il 4,25%. Per chi non lo avesse capito siamo ormai al terremoto.

Tutto, si dice, ruota attorno ai destini politici del Paese. L’interpretazione è ormai ampiamente condivisa così come condivisa è la generale percezione di incertezza. Un fattore decisivo, quest’ultimo, visto che, è noto, niente deprime i mercati come la mancanza di chiarezza. Quei maledetti 400 miliardi di titoli in mano agli investitori stranieri (che diventano 4.000 miliardi a fronte di una leva di dieci volte tanto sui contratti futures) convergono ormai in territorio speculativo. Troppo rischiosi per i portafogli dei tradizionali fondi “di lungo”, i bond vengono ormai ceduti in massa sotto i colpi del panic selling trovando mercato presso i ribassisti per antonomasia, ovvero i fondi hedge. La Bce prosegue nel suo gioco rialzista, ma i suoi acquisti sono come una predica nel deserto per il semplice fatto che questa strategia non è più in grado di far cambiare idea agli investitori.

Oggi, la società di clearing britannica Lch Clearnet ha innalzato i margini richiesti sui titoli di debito italiani dal 6,65% all’11,65%. Un segnale di crescita del rischio associato ai bond sovrani della Penisola che si traduce in un aumento dei costi sostenuti dai detentori dei titoli e che, come tale, costituisce un implicito incentivo a vendere. Poco dopo, spiega una fonte della Borsa di Londra, “i titoli italiani si sono trovati improvvisamente senza mercato, senza acquirenti, senza prezzo. In seguito, quanto tutto si è sbloccato, si è avuta la netta impressione che ad acquistarli fosse rimasta solo la Bce”. Ormai i dubbi degli investitori vertono sulla solvibilità stessa del debito italiano. Una solvibilità garantita da un piano contabile straordinario – patrimoniale, prelievo forzoso, privatizzazioni – attuato da un governo capace di agire subito sotto la spinta di larghissime intese. Esattamente ciò che manca all’Italia.

A chiarire il concetto, ci hanno pensato tra gli altri gli analisti di Nomura Holdings secondo i quali le dimissioni differite di Silvio Berlusconi costituirebbero “un passo avanti da una situazione di stallo” ma, sfortunatamente aggiungiamo noi, nulla di più. “A nostro avviso – si legge in un rapporto a cura degli economisti Lavinia Santovetti e Alastair Newton – la promessa di Berlusconi di dimettersi può essere interpretata in due modi. In modo negativo con Berlusconi che prende tempo per bruciare qualsiasi scenario alternativo alle elezioni anticipate”, oppure, al contrario, in maniera positiva con il premier che “si impegna ad approvare maxiemendamento e legge di stabilità, poi si dimette lasciando campo libero per la formazione di un governo tecnico”. Peccato, concludono gli economisti, che al momento trovi maggiori conferme la prima interpretazione: “’Berlusconi sta prendendo tempo. Un governo guidato da Angelino Alfano servirebbe solo per portare il paese alle elezioni’”. Vale a dire verso quello scenario che i mercati rifiutano.

In attesa di saperne di più resta però viva la grande paura degli ultimi giorni, quella che gli osservatori esprimono ormai in modo sempre più implicito. Il timore, inutile negarlo, è quello del punto di non ritorno, l’idea, cioè, che con i tassi oltre un certo livello si sia ormai prodotta una sorta di isteresi, una deformazione permanente, insomma, che non può più essere aggiustata. E’ l’ipotesi avanzata dagli analisti di Barclays secondo i quali, si legge in un rapporto, l’Italia si troverebbe ormai “matematicamente oltre il punto di non ritorno”. Le riforme, spiegano, non sarebbero più sufficienti in assenza di un intervento della Bce diverso da quelli attuali. In sostanza si vorrebbe che la banca centrale europea si impegnasse non solo ad acquistare i titoli ma anche a stampare moneta e a trasformarsi in un prestatore di ultima istanza sul modello della Fed statunitense o della Banca d’Inghilterra. Ovvero ciò che i trattati europei vietano ancora espressamente.

Ed è proprio quest’ultima impasse a suggerire al guru della crisi Nouriel Roubini una sentenza senza appello. “L’Italia – ha scritto oggi nella sua pagina Twitter – è troppo grande per fallire ma anche troppo grande per essere salvata. Presto una ristrutturazione forzata del debito e un’estensione della durata dei titoli saranno inevitabili”. In pratica, suggerisce l’uomo che previde in tempi non sospetti lo scoppio della crisi globale, servirebbe un default tecnico. Quella dell’economista della NY University sembra più che altro una provocazione (magari in risposta a Giulio Tremonti che nel 2006 a Davos rispose malamente alle sue perplessità sulla salute dell’economia italiana con un memorabile “Tornatene in Turchia!” ma il senso delle affermazioni è comunque chiaro. Allo stato attuale delle cose non c’è più margine di manovra. Servono interventi di emergenza. E serve, soprattutto, un governo in grado di attuarli.

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