Mario Monti, 68 anni, è di Varese, come Bossi e Maroni. Però ha studiato a Yale con James Tobin, ispiratore della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, un totem della sinistra estrema. La sua caratteristica è la centralità. Non è alto ma nemmeno basso, non è grasso e neppure magro, parla in modo sommesso e apparentemente noioso. In pubblico non ride mai e non è mai polemico.
Sa essere gentile sempre e con chiunque, e questo talento ha sicuramente aiutato la sua carriera in costante salita. Da 26 anni è ordinario di Economia politica all’università Bocconi di Milano, unico ateneo italiano di indiscusso profilo internazionale. Ne è stato rettore dal 1989 al 1994, quando ha assunto la presidenza dopo la morte di Giovanni Spadolini.
L’avvocato Agnelli lo volle nel consiglio d’amministrazione della Fiat. L’Iri presieduto da Romano Prodi lo volle vicepresidente della Banca commerciale italiana ancora pubblica. È stato Silvio Berlusconi, nel 1994, a portarlo alla Commissione europea, e nel 1999 fu Massimo D’Alema a confermarlo. Nel 2004, però, Berlusconi lo fece fuori preferendogli Rocco Buttiglione.
A Bruxelles Monti è riuscito infine a farsi dei nemici, e che nemici. Liberista come pochi, presidente della Trilateral ed esponente del Gruppo Bilderberg (proverbiali idoli negativi dell’anticapitalismo), è stato un severissimo commissario Antitrust. Ha insegnato agli europei che nel libero mercato vigono le regole, non la legge del più forte. Prima ha vietato la fusione tra la General Electric e la Honeywell, provocando una guerra diplomatica senza precedenti tra Europa e Stati Uniti. Poi ha messo in ginocchio la Microsoft di Bill Gates con una multa di 500 milioni di euro e con l’ordine di rivelare al mercato alcuni segreti del sistema operativo Windows.
La stampa internazionale ha cominciato a chiamarlo Super Mario, e lui è riuscito a non sembrarne soddisfatto. La sua critica al governo Berlusconi si è fatta più aspra mentre quello si indeboliva. Infine ha parlato della necessità di “misure impopolari”. Pochi giorni fa ha detto: “Il problema non è di tecnica, ma di passare da una politica a un’altra politica”. Adesso che è diventato senatore è pronto.
Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2011