E’ raccapricciante la notizia del piccolo guru americano che a 12 anni dirige una società di software. Thomas Suarez da noi farebbe la seconda media, ma in America è un bambino prodigio che sviluppa applicazioni informatiche ed è capace di intrattenere un pubblico di adulti presentando i prodotti della sua CarrotCorp. Pare che fin dai tempi dell’asilo abbia avuto la passione del computer: per lui programmare era come giocare col Lego.
Oggi la sua storia viene citata come un esempio di intraprendenza e l’immagine del ragazzino in posa da Steve Jobs con auricolare e camicia stropicciata sta facendo il giro del mondo. Ma che bambino è questo? La sua è una storia di successo o di infelicità? Forse a 12 anni avrebbe bisogno di altro. Magari di andare a letto presto la sera, qualche bel libro da leggere, la sua scatola di soldatini (o di Pokemon) a portata di mano, mica più per giocarci più ma per sapere che sono ancora lì. Poi sarebbe ora che provasse il brivido della sua prima cotta per una ragazzina un po’ più grande di lui, che praticasse uno sport e scoprisse il suo corpo, che se lo guardasse e si chiedesse quanti ancora gliene cresceranno di peli sul pube. Avrebbe bisogno annoiarsi sui compiti, un ragazzino di 12 anni, di imparare poesie a memoria senza capirle, di prendere quattro e poi otto nel compito in classe. E di perdere tempo, tanto tempo.
Quando esisteva ancora la vecchia edizione della rivista Il Male, il disegnatore Giuliano Rossetti vi pubblicò la vignetta di un bambino che chiedeva a sua madre:
“Mamma, hai visto la mia bottiglia?”
“Quale?”
“Una verde, di plastica…”
“L’ho buttata!”
“Ecco! Ventisei seghe sprecate!” commentava allora il bambino.
Di questi sprechi avrebbe bisogno Thomas Suarez per crescere e diventare un giorno un asso dell’informatica.