Ho un sassolino da togliermi e lo faccio pubblicamente perché la storia è esemplare. Come tutti gli azionisti Unicredit, la Regione Siciliana e la Fondazione Banco di Sicilia (che fa capo ad enti pubblici) quest’anno, oltre a rischiare di non vedere dividendi, saranno chiamate a sottoscrivere un gravoso aumento di capitale con risorse che, di certo, non hanno per mantenere invariata la loro partecipazione. Nè varrà loro continuare a riportare a valori non di mercato tale partecipazione perché quando il valore di un investimento scende da 100 a 50 la perdita è del 50%, ma per risalire da 50 a 100 la crescita percentuale deve essere invece del 100%. Qui però parliamo di molto di più del 50%: quanto ci vorrà allora per recuperare tale minusvalenza?
È una ben magra consolazione aver sostenuto in tempi non sospetti, nel gennaio 2008, l’idea di una diversa utilizzazione di queste risorse e di averla ribadita sulle pagine siciliane di Milano Finanza il successivo 30 agosto, sempre prima del crack Lehman. Cosa proponevo di fare della partecipazione siciliana in Unicredit ovvero di quanto rimaneva dell’avventura bancaria siciliana dopo il caso Sicilcassa e il Banco di Sicilia ridotto a brand? La conoscenza è una grande risorsa, capace di sostenere un’economia moderna, che presuppone un’unica fonte: il cervello. Poiché i cervelli esportati rappresentano da sempre una delle più apprezzate voci del made in Sicily, perché non incentivarne il rientro per un’utile valorizzazione in casa?
La Regione -dicevo- potrebbe prendere un asset di un certo valore del suo patrimonio, come ad esempio la partecipazione detenuta nel Gruppo Unicredit, metterlo sul mercato e, con il ricavato, investire nel medio-lungo termine nel campo della ricerca pura ed applicata. Le partecipazioni della Regione Siciliana e della Fondazione Banco di Sicilia (che fa capo ad enti pubblici locali) nella holding Unicredit assommavano un 1,22% e valevano all’epoca quasi un miliardo di euro.
Per evitare le classiche tentazioni dell’intermediazione politica così come della baronia universitaria locale e per assicurare una gestione assolutamente meritocratica, la Regione -proponevo- potrebbe costituire un trust di scopo cui trasferire adeguati capitali per realizzare nell’isola dei centri di ricerca capaci di sfornare pubblicazioni scientifiche di livello, brevetti e know how.
Come è noto, il trust è un istituto che trasferisce la proprietà legale di un patrimonio dal disponente (settlor) al fiduciario (trustee) che ne può disporre, però, esclusivamente a favore di un beneficiario (beneficiary) e secondo le sue iniziali istruzioni. Il trustee dovrebbe quindi, su istruzioni irrevocabili della Regione, selezionare un comitato scientifico internazionale, proveniente dalle più prestigiose università del mondo con il compito di individuare i campi di ricerca pura ed applicata più promettenti, selezionare responsabili e ricercatori e dotarli infine di laboratori e di tecnologie adeguate.
Il trustee (che non sarebbe una persona fisica, bensì una istituzione finanziaria internazionale che si avvarrebbe per il suo compito di società di cercatori di teste) avrebbe la responsabilità di sfornare a medio termine, attraverso i ricercatori messi a contratto a tempo determinato, brevetti che non sarebbe nemmeno necessario sfruttare industrialmente in Sicilia, ma che si potrebbero vendere al mercato per introitare royalty. Il flusso di royalty potrebbe servire a garantire il finanziamento di nuovi investimenti, così come a distribuire alla Regione, nella qualità di beneficiary, un dividendo.
Cosa avremmo così concluso? Avremmo in Sicilia un’istituzione scientifica meritocratica di reputazione internazionale, impermeabile all’intermediazione politica e capace di attirare cervelli, siciliani o non, da tutto il mondo con contratti competitivi e la garanzia che nessuno potrà più distogliere i soldi che la Regione Siciliana vi avrà inizialmente devoluto dal loro alto scopo.
La presenza di istituzioni scientifiche di livello in un territorio (vedi il caso di Cambridge) promuove infine la nascita di distretti produttivi più efficacemente di ogni altro incentivo economico o fiscale. Un trust gestito da primarie istituzioni internazionali, sottratto agli appetiti di politici e baroni universitari (le università siciliane sono tristemente in coda alle classifiche di qualità), potrebbe quindi contribuire al progresso della Sicilia meglio di qualunque banchetta di respiro regionale.
Che futuro potrà mai avere una terra che si priva delle intelligenze migliori mentre mantiene e ingrassa tanti parassiti? Quanti studenti e ricercatori siciliani, laureatisi in prestigiose università italiane o estere, trovano poi occupazione nella loro terra? Che senso ha pagare un ricercatore mille euro al mese (fino a costringerlo ad emigrare all’estero) ed un usciere dell’ARS due o tre volte tanto? Se si dessero a dei ricercatori uno stipendio decente e cinque anni di tempo per sfornare un brevetto, in un ambiente adeguato e appositamente attrezzato, quante risorse si genererebbero sfruttando la migliore risorsa che i siciliani ritengono di avere, l’intelligenza?
Non voglio infierire riportando il valore complessivo della partecipazione come lo calcolo da Bloomberg mentre scrivo, ma evidenziare solo che la politica preferisce sempre ad idee quale quella esposta poltrone di sottogoverno ed effimere posizioni di potere.