In settimana è successo di tutto: alluvioni che hanno travolto mezza Italia, tsunami che hanno terremotato la politica. Quasi in sordina è passata la seguente notizia: la Banca d’Italia ha presentato un rapporto da cui si evince che nel 2010 la percentuale di ragazzi che non studiano e non lavorano (in inglese, neet: “Not in Education, Employment or Training”) è cresciuta ancora, arrivando a toccare i 2, 2 milioni di giovani. La Banca centrale ci spiega che il 23, 4 % delle persone di età compresa tra i 15 e i 29 anni non ha un occupazione né si sta formando. L’aumento dei neet è più forte al Nord e al Centro, meno nel Mezzogiorno (dove prima della crisi i neet erano già il 30 %); le donne (che novità!) sono più (26 %) che gli uomini (20 %).
I soliti (nemmeno vale la pena citarli) hanno gridato ai fannulloni, un’intera generazione di Vitelloni, di Oblomov, di scioperati oziosi. Gente che sta bene così: dopo tutto lavorare stanca. Eh già, perché sennò uno non smette di cercarselo, il lavoro. Cosa ci vorrà mai? Compili un curriculum e poi lo mandi in giro. O ti iscrivi al collocamento. O ti rivolgi alle agenzie di lavoro interinale. E poi è garantito: il lavoro si trova. Perciò scansafatiche, scendete dall’amaca di Paperino e rimboccatevi le maniche. È ovvio che chi così tanto autorevolmente si esprime, non ha la minima idea di cosa significhi cercare un lavoro in Italia, agli sgoccioli del 2011. In termini di possibilità, prima di tutto: ti senti rispondere solo “no, grazie”. Oppure: “C’è la crisi, non abbiamo assunzioni né collaborazioni”. Chi un’occupazione ce l’ha, lavora da mattina a notte, domeniche comprese, (straordinari pagati? Quasi mai) per tenersi stretto quello che ormai è diventato un privilegio.
L’aspetto più atroce è che questa disoccupazione sta diventando cronica. Ed è la negazione di una chance, in un Paese che non conosce il salario minimo garantito. Il sistema degli ammortizzatori sociali tutela chi è stato già occupato, non chi non è mai stato occupato. Le due cose però non sono autoescludenti: se si tutelano i lavoratori in esubero, non vuol dire che non si possano prevedere politiche per chi è sempre rimasto a casa. I risultati di questa assurda miopia (anche della sinistra) che non vede come l’inclusione sociale sia l’unica strada da percorrere, sono persone che sulla loro pelle vivono l’atrocità dell’inerzia. L’umiliazione dello stare con le mani in mano, l’impossibilità di fare progetti e di una crescita che avviene anche attraverso lavoro.
Quella frase di Camus, “la giovinezza è un insieme di possibilità”, per loro non vale. Non c’è giovinezza se non c’è futuro. Sono lunghe le giornate piene di nulla e stringere i denti è un esercizio faticoso. Lo puoi fare per un po’, poi anche le mascelle più allenate e forti si arrendono. Nessuno può vivere dentro questa tensione in eterno e lo dico con rabbia perché sono sempre i più deboli che pagano. Lo spiegava benissimo una ragazza precaria nella prima puntata di “Servizio pubblico”: “Noi non vogliamo che si tocchino le pensioni perché l’unica garanzia che abbiamo sono i nostri genitori”. È una verità triste: a trent’anni chiedere la mancia è più che una mortificazione. Cercando approfondimenti e notizie sul sostegno al lavoro, ho trovato la pagina Facebook dell’associazione Mentore. Mi ha colpito il nome di un’iniziativa che stanno lanciando in questi giorni. Si chiama “Celapuoifare”: esattamente quello che tutte le persone costrette a pietire una ragione di esistere non riescono a dirsi.
da Il Fatto Quotidiano del 13 novembre