La Loya Jirga, grande kermesse tradizionale afgana comincia nel peggiore dei modi: non solo per le minacce dei talebani che sostengono di essere entrati in possesso dei piani di sicurezza, ma anche per i problemi con il Parlamento e l'opinione pubblica
I talebani hanno iniziato con un attentato già lunedì. Il kamikaze non è riuscito ad entrare nel tendone allestito per ospitare gli oltre due mila inviati (ma non si sa bene con che criterio scelti) dalle 34 province del Paese, arrivati alla spicciolata in questi giorni nella capitale. Ma la guerriglia in turbante ha fatto di più: ha detto di avere in mano la pianta della sicurezza della kermesse, dunque tutti gli obiettivi sottomano. E ha minacciato di punire i “traditori” che vi prenderanno parte. Vera o falsa che sia la mappa, liquidata dal governo e dalla Nato come “propaganda” (ma tutti sanno che i talebani hanno spioni ovunque), la tensione è alta. All’ultima jirga di Kabul (Karzai ne ha già convocate due ma questa è la più importante) i guerriglieri hanno sparato razzi che hanno creato panico e fuggi fuggi e per miracolo non hanno colpito addirittura Karzai, già sfuggito a numerosi attentati.
Ma al di là del fattore strettamente militare, la jirga corre un rischio politico. Più della metà dei parlamentari sono contrari e un gran numero l’ha addirittura catalogata, per iscritto, come “incostituzionale”. La materia del contendere è non solo il fatto che l’agenda del summit è stata decisa solo da Karzai (con due punti all’ordine del giorno: il rapporto con gli americani e il processo di pace) ma che il governo ha più volte ribadito che si tratta di un puro atto consultivo. La Jirga non avrà insomma voce in capitolo: può al massimo consigliare il presidente. Un modo di fare che sembra riportare l’Afghanistan ai tempi della monarchia la quale, per altro, stava molto attenta a non alienarsi i capi tribali e non si sarebbe mai permessa di considerare la Loya Jirga poco più che un atto formale che non ha di fatto potere decisionale.
Al coro degli insoddisfatti in Parlamento (che si domandano che ruolo ha l’istituzione di cui fanno parte) e che già hanno criticato gli accordi tra Karzai e la Nato/Isaf, sostenendo che la presenza occidentale così com’è viola la sovranità nazionale, si sono unite anche le associazioni della società civile. Preoccupate di esser tagliate fuori dal processo decisionale, temono anche loro che la jirga sia poco più che una passerella che serve al presidente per farsi bello davanti alla comunità internazionale e per legittimare le sue decisioni. Su cui c’è nebbia. Cosa faranno gli americani dopo il 2014 (data entro la quale la “transizione” dei potersi sarà terminata)? Cosa farà la Nato? E il processo di pace che fine sta facendo? E quali sono i rapporti col Pakistan, su cui il presidente un giorno pensa una cosa e il giorno dopo ne dice un’altra?
Come se il clima non fosse già abbastanza avvelenato, l’uscita ieri di un sondaggio dell’Asia Foundation (considerato un think thank autorevole ma pur sempre grazie a finanziamenti americani) sostiene che l’appoggio ai talebani è in calo (e fin qui tutti sembrano essere d’accordo tranne loro) ma dice anche che il sostegno a Karzai conta su un’elevata fetta di popolazione: il 73 per cento degli afgani . Al Jazeera, che ha dato voce a chi si lamenta di quella che sembra più che una ricerca una manovra per dare forza a Karzai, ricordava un sondaggio Gallup della scorsa settimana secondo cui in Afghanistan il giudizio sulla qualità della vita mostra un 30 per cento di gente in sofferenza, il 7 per cento in più rispetto all’anno prima. Come sono allora possibili i numeri dell’Asia Foundation? La risposta sta nella chiave delle domande: se oltre l’80 per cento è a favore del processo negoziale (cioè vuole la pace) un’abile trasferimento dei dati finisce a tradursi in appoggio al governo. Ma la stagione che Karzai attraversa appare in realtà di tutt’altro segno.
di Said Abumalwi