Scrivo dopo una settimana in cui sono successe molte cose.
Ho seguito e commentato la fine del Governo Berlusconi, una ottima notizia per l’Italia e la fine di un incubo. Non ci sono certamente tempi rosei davanti: la crisi finanziaria morde, in Italia così come nel resto d’Europa, e saranno necessarie misure impopolari. Sono anche io convinta che Mario Monti possa guidare il paese attraverso una traversata nel deserto per recuperare credibilità.
D’altro canto – è la tesi che ho sostenuto qua – la storia recente dimostra di cosa sia capace l’Italia quando è governata con rigore, credibilità internazionale e rispetto per le istituzioni: alla fine del 2007, con Romano Prodi, il debito pubblico aveva raggiunto il suo livello più basso dal 1991.
Sono usciti molti articoli sui giornali inglesi che parlano dell’Italia e dei suoi vizi: raccontano di un paese gerontocratico e immobile, dal quale i giovani sono costretti ad emigrare o a vivere in casa con mamma e papà. Spesso un bilancio impietoso, e spesso non lontano dalla realtà.
Io non amo gettarmi nella mischia delle critiche, perché l’Italia è il paese in cui sono nata e cresciuta.
Pertanto sostengo che è vero, il governo Monti (che vanta ottime presenze) è un governo di non più giovani, perché il prossimo governo sarà un governo di giovani e con il 50% di donne.
Mi preoccupa invece il trionfo della tecnocrazia in Europa. L’euro fu accusato di essere un progetto messo in piedi dai tecnocrati, e ora i tecnocrati sono chiamati a salvarlo. Su questo bisogna che la politica si interroghi profondamente: come si costruisce, dalle macerie, il primato della politica? La crisi del debito, iniziata negli Stati Uniti e poi dilagatasi in Europa, dimostra quanto dannoso sia lo strapotere della finanza e quanto sia, invece, necessario, che sia la politica a guidare l’Europa e il mondo. Anche perché è proprio di politica che c’è bisogno.
Su un piano diverso (ma non proprio…) sto lavorando al secondo numero di Fabiana, la rivista di cui sono direttrice. Il prossimo numero uscirà a gennaio e sarà centrato sui temi della riforma dello Stato e del welfare. La domanda che mi pongo (e che ci porremo il primo Dicembre prossimo in un evento che ho organizzato con il rinomato istituto di ricerca sociale IPPR, con le Università di Cambridge ed Oxford): come costruire un welfare capace di promuovere equality e gender justice? È un dibattito molto acceso in Gran Bretagna, e vale la pena seguirlo. Non solo perché la globalizzazione ci rende tutti vicini (come dimostra la crisi!), ma perché anche in Italia il welfare antiquato è una delle cause delle disuguglianze. Ma di welfare parlerò nei prossimi post.
Oggi abbiamo lanciato una campagna “End all male panels”. Parlando con alcune amiche, abbiamo notato l’ascesa – fatto inaudito nel Regno Unito – di dibattiti ed eventi politici i cui relatori sono tutti maschi. Abbiamo dunque deciso di reagire, lanciando una campagna di boicottaggio.
È certo che nei momenti di crisi le donne siano le prime a pagare il conto: su di loro si accanisce brutalmente l’agenda dei tagli del governo Cameron.
In base al populismo Tory di voler mandare (a parole) i fannulloni a lavorare, la coalizione a guida conservatrice lascia in pace i banchieri e i ricchi, ad esempio pianificando di cancellare l’aliquota del 50% sui redditi. Sono invece tagliati i sussidi statali per i genitori single, quasi tutte madri per forza di cose, le quali si trovano così costrette ad uscire da un mercato del lavoro non più sostenibile. Ideologia dall’effetto opposto, e devastante, specialmente nei quartieri meno ricchi come il mio.
Proprio in momenti come questi le donne devono vigilare, affermando che non c’è progresso senza gender justice.
È certamente una questione di presenza: non c’è politica se le donne non sono presenti ai tavoli in cui si discute. Da qui è nata l’idea della campagna, che sta avendo un successo enorme: segno dei tempi, e del fatto che qua le donne sono in prima fila, dando così vita a quella che io chiamo una nuova ondata di femminismo britannico.