Favorire la concorrenza, l’accesso alle professioni e la competitività. Provvedimenti necessari per il sostegno alla crescita. Ancora aperto il nodo dell’equità sociale. Su cui pesa un welfare carente
A quasi 18 anni di distanza, assumendo l’incarico di premier d’emergenza e di ministro dell’economia ad interim, Monti si trova nella condizione di poter finalmente avviare una svolta. Ma quali saranno i provvedimenti chiave del suo esecutivo? Quali scelte caratterizzeranno il piano di ripresa di un Paese sospeso tra lo stallo permanente e il rischio di un collasso? Difficile individuarle con precisione, soprattutto a fronte della spada di Damocle di un sostegno parlamentare tuttora “condizionato” e “condizionante” tanto a destra come a sinistra. Ma qualche ipotesi può già essere fatta. Ripercorrendo magari proprio la storia della collaborazione tra il commissario Ue e il più diffuso quotidiano italiano. Sulle cui pagine, nel corso degli anni, non aveva mancato di ribadire più volte la sua delusione nei confronti della gestione politica del sistema Paese.
“Gli attacchi si dirigono contro i titoli di Stato di quei Paesi appartenenti alla zona euro che sono gravati da alto debito pubblico e che hanno seri problemi per quanto riguarda il controllo del disavanzo pubblico o l’incapacità di crescere (e di rendere così sostenibile la loro finanza pubblica) perché non hanno fatto le necessarie riforme strutturali. È questo il caso dell’Italia”, scriveva Monti meno di venti giorni fa. Al centro di tutto, allora come oggi, il tema delle riforme strutturali. Quelle che, aveva scritto il 14 luglio di quest’anno, servirebbero a “far aumentare la produttività complessiva dei fattori produttivi, la competitività e la crescita, a ridurre le disuguaglianze sociali”. Il significato del progetto lo aveva chiarito in un articolo pubblicato contemporaneamente dal Corriere e dal Financial Times. L’italia, spiegava Monti, non poteva permettersi di cercare l’espansione economica allentando la disciplina di bilancio. Al contrario, avrebbe dovuto impegnarsi nella rimozione degli “ostacoli strutturali alla crescita”, quelle barriere figlie tanto del “corporativismo” quanto della “insufficiente concorrenza”. L’obiettivo, insomma, è chiaro: sistemare i conti ma anche stimolare la ripresa evitando, quindi, di cadere nella trappola austerity/recessione (la malattia contemporanea di Grecia, Spagna e Portogallo). Il “come”, invece, non è ancora evidente. Ma forse è parzialmente intuibile.
Cercasi capitali privati, anche stranieri
“Ci vorrebbe un po’ di patriottismo economico” , scriveva Monti lo scorso 8 agosto, non certo, al contrario, quel “di colbertismo de noantri” di chi fa “barriera in nome dell’interesse nazionale contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici”. Una storia già sentita, dal caso Alitalia/Airfrance fino alla più recente vicenda Parmalat/Lactalis. Il significato è chiarissimo, l’indicazione per il futuro anche. L’Italia dovrà smettere di sostenere con il denaro pubblico le aziende private in difficoltà, il che significa porte aperte alle acquisizioni degli investitori esteri che siano disposti ad accollarsi i debiti e le perdite. E se la dismissione del patrimonio pubblico implicherà la cessione di qualche partecipazione industriale – le famose golden shares statali in Eni ed Enel – ben vengano le acquisizioni dall’estero. Monti non ne ha mai parlato esplicitamente. Ma c’è da scommettere che di fronte a un’offerta convincente non si tirerebbe indietro.
Corporativismo, la malattia medievale
“Nel 1994, dopo decenni di consociativismo, che pure avevano dato anche risultati positivi, l’Italia aveva bisogno di una grande depurazione dalle incrostazioni corporative, destinate a pesare ancor di più nel contesto della competizione globale sempre più dura”. Riflessione amara, quella espressa da Monti a maggio. Ma di certo estremamente chiara. In fondo, non è altro che la linea di pensiero ribadita dall’Economist nel giugno scorso in una lunga analisi dei guai italiani. Perché Berlusconi, scriveva il settimanale britannico, sarà pure “l’uomo che ha fottuto un intero Paese”. Ma certo non può essere considerato l’unico responsabile di uno stallo frutto di resistenze corporative di stampo quasi medievale. Proprio quelle che Monti si propone di abbattere. Ottenendo quindi, per tornare alle parole del neo premier, “meno barriere all’entrata, meno privilegi e rendite per gli inclusi, più possibilità di ingresso per gli esclusi e per i giovani, più spazio al merito e alla concorrenza”.
Ordini professionali
Non ha senso parlare di riforma dell’articolo 41 se la l’accesso alle professioni resta condizionato da fattori che nulla hanno a che vedere con il merito, il mercato o la concorrenza. Monti lo aveva ribadito lo scorso 6 febbraio anticipando, forse, ciò che potrebbe avere in mente di fare anche in Italia. “Se si vuole essere seri sulle liberalizzazioni – scriveva – , si rivisiti pure la Costituzione, ma prima ancora si visiti Atene. Il 21 gennaio il governo Papandreou ha adottato una riforma di quelle che i Greci chiamano correttamente le «professioni chiuse» e noi pudicamente le «professioni liberali ». La riforma consiste nell’abolizione, per tutte le professioni, delle tariffe minime, del numero chiuso, delle restrizioni territoriali e del divieto di farsi concorrenza con la pubblicità”. Guerra alle corporazioni, dunque, come per altro aveva già tentato di fare qualcuno. Bersani, è noto, entrò in guerra aperta con i tassisti. Chissà che l’ex commissario non si trovi coinvolto in un conflitto più ampio.
Metodo Marchionne
Infine la politica industriale, quella che aveva sostenuto due anni fa lo stesso presidente Napolitano, dovrebbe inserirsi seriamente “nel quadro europeo, cioè secondo le coordinate dell’integrazione europea e in ossequio ai fondamenti della libera competizione e ai principi dell’economia di mercato”. Monti, è noto, ha lodato le scelte di Marchionne e proprio per questo, quindi, potrebbe continuare a spingere sul tasto del superamento della contrattazione collettiva. Ma qui si manifestano non pochi problemi. Parlare di flessibilità contrattuale in un Paese che non prevede garanzie di welfare per i lavoratori flessibili è quanto meno paradossale. Specialmente di fronte alla più volte ribadita necessità di diminuzione delle diseguaglianze sociali. Una crescita del Pil accompagnata a un aumento della diseguaglianza di traduce sempre nel mascheramento di quest’ultima attraverso un sostegno artificiale ai consumi. La bolla del credito, in fondo, è tutta qui. E la lezione statunitense è un monito per chiunque. Ma favorire l’equità sociale attraverso strategie discutibili come gli accordi di Mirafiori e Pomigliano è obiettivamente impossibile a meno che ad entrare in gioco non sia un nuovo e più inclusivo modello di Welfare per il quale, tuttavia, mancano oggi le necessarie risorse contabili. Un rebus aperto, insomma. Che potrebbe anche non essere mai risolto.