E’ una strana campagna presidenziale, quella entrata ormai nel vivo qui negli Stati Uniti. E’ una campagna in cui ogni candidato presenta uno o più handicap, in cui ogni candidato spera che i limiti e gli errori degli altri siano più importanti dei propri meriti e risultati. Questo vale anzitutto per il presidente, Barack Obama, incapace di tener fede alla promessa di cambiamento fatta all’America quattro anni fa, incapace di entrare davvero in sintonia con le paure e le frustrazioni del Paese, travolto lui stesso dalla crisi economica globale più severa degli ultimi decenni. Ma questo vale soprattutto per i candidati repubblicani, ognuno dei quali pare incapace di proporsi come valida alternativa alla Casa Bianca democratica.
Questi, per Obama, non sono in fondo giorni davvero negativi. Dopo il crollo di popolarità dei mesi scorsi, il presidente ha lentamente riguadagnato posizioni. Lo hanno aiutato le divisioni tra i repubblicani, il senso che gli sfidanti siano troppo deboli, la percezione che la leadership repubblicana del Congresso, con i suoi continui “no”, sia essa stessa responsabile per i cattivi risultati dell’economia. Un recente sondaggio della Suffolk University, condotto tra gli elettori della Florida, mostra che il 49% degli intervistati pensa che John Boehner, Mitch McConnell, Eric Cantor stiano “intenzionalmente” facendo fallire gli sforzi per risollevare l’economia. Con un unico obiettivo: cacciare Obama dalla Casa Bianca.
Confortato dal lieve miglioramento degli indici di disoccupazione (dal 9,1% al 9%), ma soprattutto dalla debolezza degli avversari, Obama sta in queste ore definendo la sua politica. Davanti a sé ha due opzioni: la “strategia dell’Ohio” e quella “della Virginia”. Se la Casa Bianca vuole conquistare, il prossimo novembre, il voto di piccola borghesia e proletariato bianco in stati come Ohio, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin (gli Stati della cosiddetta “Rust Belt”, l’area industriale “arrugginita”), dovrà nei prossimi mesi potenziare il carattere popolare e populistico del suo messaggio politico. Se invece il presidente intende rivolgersi all’elettorato borghese, di professionisti e laureati dei ricchi sobborghi urbani della Virginia, del Colorado, del Nevada, del North Carolina, cercherà di enfatizzare gli accenti moderati e centristi.
I collaboratori di Obama, pubblicamente, continuano a ripetere che la strategia è quella di cercare voti ovunque. Ma è comunque un dato di fatto che la campagna di Obama si trova a un bivio. Probabile che la scelta possa cadere sulla “strategia della Virginia”. Un po’ per il carattere e la personalità del presidente –professore di diritto costituzionale, poco incline alla “politica della passione”, pochissimo a suo agio quando si tratta di mirare “alla pancia” degli elettori. Un po’ per il tipo di politica attuata in questi anni dalla Casa Bianca, attenta alle esigenze di un’economia post-industriale, “verde” e tecnologicamente avanzata, più che a quelle della classe lavoratrice tradizionale (che resta fredda e sospettosa nei confronti di Obama: solo il 40% dell’elettorato con titolo di studio delle medie superiori dà un giudizio positivo del presidente). La decisione dell’amministrazione di posporre la costruzione del Keystone XL, l’oleodotto che avrebbe dovuto trasportare il greggio dal Canada alle raffinerie dell’Illinois, dell’Oklahoma, del Texas, creando lavoro e preoccupazione tra gli ambientalisti, mostra da che parte stanno cuore, e testa, di Obama e dei suoi.
Oltre le strategie elettorali, resta comunque un dato. La vera “arma segreta” di Obama, come l’ha chiamata un analista politico, Michael Tomasky, è la debolezza dei suoi avversari, la percezione – tra le stesse truppe dell’elettorato repubblicano – che gli sfidanti di quest’anno abbiano – tutti – uno o più punti deboli. Mitt Romney, il favorito, che continua a guadagnare consensi (un sondaggio delle ultime ore lo dà vincente in New Hampshire), non piace a larghi settori del suo elettorato, che lo considera un “Obama mascherato”, un repubblicano liberal che da governatore del Massachussetts fece votare una riforma sanitaria simile a quella di Obama; e che oggi, per pura convenienza, si sposta a destra e abbraccia una politica conservatrice che non gli appartiene.
Herman Cain, che invece piace proprio per il carattere populistico ed esplosivo della sua retorica, è in queste settimane inseguito da plurime accuse di molestie sessuali. Newt Gingrich e Ron Paul, che mantengono una sostanza politica e una consapevolezza culturale della storia repubblicana sconosciuta agli altri sfidanti, restano candidati di bandiera, di minoranza, senza una struttura organizzativa e finanziaria in grado (probabilmente) di portarli lontano. Quanto a Rick Perry, l’ex governatore del Texas amato da Tea Parties e conservatori, il suo “ooops” a un recente dibattito (Perry ha dichiarato di volere “cancellare tre agenzie federali”, ma è riuscito a citarne soltanto due) sembra averne ridimensionato una volta per tutte le ambizioni.
In Ohio, una settimana fa, gli elettori hanno votato contro una misura che avrebbe limitato il diritto di contrattazione collettiva dei lavoratori statali. In Mississippi è stata rigettata una proposta che avrebbe messo fuori legge l’aborto e molte forme di contraccezione. In Maine è stato reinstallato il diritto di registrarsi al voto lo stesso giorno delle elezioni. Ecco, in queste tre sconfitte, per l’azione dei conservatori e dei repubblicani americani, sta forse la sostanza della politica USA a un anno dalle presidenziali. Gli americani possono non avere un giudizio “stellare” del loro presidente. Ma gli sfidanti piacciono ancora meno.