Per l’autore del saggio L’egemonia sottoculturale, “ci vorrà un po’ prima di liberarsi del mix di tv trash, gossip, riviste patinate e armi di distrazioni di massa che non corrisponde alla realtà che viviamo”. La salvezza? “E’ solo collettiva”
Ospite Massimiliano Panarari: politologo, massmediologo, docente di Comunicazione politica all’Università di Modena e Reggio Emilia e di marketing politico alla School of Government dell’Università Luiss Guido Carli di Roma, che lucidamente ci parla di una «politica che in questo ultimo ventennio è stata volutamente sottoculturale, per ragioni di controllo e di anestetizzazione della popolazione».
Ci spiega il concetto di egemonia sottoculturale?
È un concetto mutuato da Gramsci, il quale riteneva che vi fossero due modalità per comandare un popolo. Una era quella della forza bruta, lo chiamava il dominio, consisteva nel manganello, nella repressione. L’altro era un modo più sottile, più subdolo, che lui definiva direzione culturale e che noi chiamiamo comunemente egemonia culturale. Consisteva nel costruire una filosofia di vita conforme agli interessi delle classi dominanti che veniva calato sui subordinati. In questo modo, un po’ come nella Sindrome di Stoccolma, si innamoravano del proprio carnefice. Mutati i tempi, siamo entrati in una fase, a partire dagli anni Ottanta, in cui gli equilibri di potere si sono modificati e la comunicazione è diventata decisiva. Nel caso della nostra Italietta, l’ultimo periodo, che dal punto di vista politico sembra essersi concluso in queste ore, il lungo ventennio dominato dalla figura di Berlusconi, ha avuto nella egemonia sottoculturale, ovvero in un mix di tv trash, di gossip, di riviste patinate, di armi di distrazioni di massa, il modo di costruire un modello di vita non rispondente alle esigenze della popolazione, soprattutto in una fase di crisi economica seria come quella che dura dal 2008 e consistente nel regalare una sorta di sogno come lui diceva. Questa è l’egemonia sottoculturale, che si è alimentata di trasmissioni televisive, di riviste patinate, di una visione del mondo assolutamente differente, leggera, disimpegnata, fatta di mercificazione del corpo femminile, che nulla aveva a che fare con la dura realtà di questo paese.
Lei parla di tronismo e velinismo, prodotto della tv commerciale di Berlusconi. Quanto di quella cultura è stata trasposta nella politica berlusconiana giunta oggi al termine?
Penso che sia finito un ciclo politico, non una fase culturale. Dobbiamo attendere per saperlo, ma possiamo immaginare che le scorie di questi anni saranno ancora dure a morire. È indubbio che la costruzione del paradigma di un modello in cui tutto ciò che è immagine, tutto quello che è negazione del collettivo e della socialità, una traduzione alla brianzola potremo dire dell’edonismo reganiano e del darwinismo sociale che viene dall’America degli anni Ottanta, ha disseminato le sue tossine. Quello che attende questo paese non lo possiamo sapere, ma siamo certi che dobbiamo lavorare per cambiarne la cultura. Sarà un lavoro lungo, complicato e in controtendenza, perché il modello sottoculturale si è alimentato anche di tendenze quasi naturali: il gossip è predisposizione in ciascuno di noi, tollerabile se legato al disimpegno rispetto a vite quotidiane affaticate, altra cosa quando diventa una cortina fumogena sotto la quale annegare qualunque senso di impegno e soprattutto l’idea della politica come impegno per gli altri, come dimensione collettiva.
Quanto ha contato in questo scenario la politica dei tagli all’università e, più in generale, alla cultura, messa in atto dal Governo Berlusconi?
L’attacco alla scuola e all’università pubblica, ovvero l’attacco all’idea dell’istituzione e all’idea dell’educazione come elevazione generale di una popolazione, viene dai paesi anglosassoni con l’inizio degli anni Ottanta. Io penso che abbia contato moltissimo indebolire, sgretolare, far sì che le agenzie di formazione e di socializzazione, quelle in cui, ben diversamente da quello che sostenevano alcuni esponenti del governo precedente, non si sviluppa comunismo, ma al contrario si cerca di fornire strumenti per decodificare la realtà, ha assecondato in maniera pensante una tendenza generale. Questo ventennio ha visto lo spegnersi della capacità critica. E l’assenza di un pensiero di critica dell’esistente è un anestetizzante molto pericoloso, che gli apprendisti stregoni della politica cercano di alimentare, ma che si rivela disastroso per qualunque sistema paese, qualunque popolazione. Un governo saggio dovrebbe insistere sull’educazione pubblica e ripartire invertendo la tendenza.
La sollevazione delle piazze, sintomo dell’esigenza di uscita dal “regime” berlusconiano, che ruolo potrà avere sul ridimensionamento della sottocultura egemone?
Qualunque manifestazione di mobilitazione della società civile è importante, pratica non incoraggiata in questi ultimi decenni. Saluto con piacere, dunque, tutto ciò che significa liberare energia e far partecipare i cittadini, in maniera che assumano chiaramente la percezione di come la salvezza sia solo collettiva.
Oggi che il Governo Berlusconi è uscito di scena, che responsabilità ha la sinistra nel sovvertire questo scenario?
Una delle responsabilità delle formazioni storiche dei partiti della sinistra nel corso di questi ultimi vent’anni è stata di accodarsi eccessivamente al neoliberismo e assumere un’ideologia di accettazione acquiescente dell’esistente. Io credo che la mobilitazione dei cittadini abbia bisogno di uno sbocco politico. Altrimenti rimane un episodio importante, che non deve produrre naturalmente disordini, ma che proprio per evitare sollevazioni disordinate ha bisogno di trovare proposte politiche. In questo consiste il compito dei partiti: di dare delle risposte serie, delle risposte di prospettiva alla rabbia dei cittadini.
Come può la cultura formare i cittadini e favorire l’indotto economico?
La cultura è un bene comune, non ha una dimensione economica. È fondamentale per costruire la coscienza dei cittadini e questo non ha un prezzo. Ma viviamo in un paese dove la divisione internazionale del lavoro ha delle risorse proprio nel campo culturale. Salvaguardando la dimensione dell’educazione pubblica, dunque, esiste un ambito economico che può essere sviluppato investendo sulla cultura. Gli economisti della cultura ci raccontano che per ogni euro investito nei tanti ambiti dell’industria culturale, ci sono moltiplicatori quattro – cinque. Questo significa produrre una quantità significativa di posti di lavoro qualificati, soprattutto nelle nuove generazioni, e al tempo stesso significa valorizzare filoni della storia della culturale nazionale che sarebbero in grado di offrire grandi prospettive economiche. Il modo migliore per voltare pagine rispetto ad una politica che è stata volutamente sottoculturale, per ragioni di controllo e di anestetizzazione della popolazione, credo sia quella di far sì che cultura sia da un lato bene comune, dall’altro volano per produrre occupazione qualificata e per restituire benessere a questo paese.