Aveva nove anni quando la sua famiglia, originaria dell’Est libico, si trasferì a Sirte, la città natale di Gheddafi. A 15 anni, nel 2004, lo incontrò per la prima volta. Venne scelta tra le ragazze del suo liceo per offrire un mazzo di fiori al rais, in visita alla scuola, dove studiavano alcuni del clan Gheddafi. “Era un grande onore per me. Lo chiamavo papà Muammar: avevo la pelle d’oca”. Lui le posò la mano sulla spalla. Poi le accarezzò i capelli: lentamente. Era un segnale per le guardie del corpo. Che significava: “Questa qui la voglio”. Ma la ragazza lo capì solo più tardi.
Un’inviata del quotidiano francese Le Monde è riuscita a intervistare Safia. E’ un nome di comodo, ma la sua vicenda è vera: il racconto dolente di una storia nel vortice della depravazione e della follia di Gheddafi. Annick Cojean, la giornalista, le ha parlato per più di due ore in un albergo di Tripoli. La descrive così: “Ha 22 anni. E’ bella come il giorno ed è distrutta. Le capita di ridere, ma solo per qualche secondo e allora una scintilla d’infanzia rischiara un volto graffiato dalla vita. ‘Quanti anni mi dà?’, chiede, togliendosi gli occhiali da sole. Aspetta, abbozzando un pallido sorriso, e mormora: “Io ho l’impressione di avere quarant’anni”. Più tardi ammette che “Muammar Gheddafi ha saccheggiato la mia vita”. Ricorda quando alla tv, come tutti i suoi connazionali, scorse il cadavere del colonnello.”Quando l’ho visto, esposto alla folla, ho percepito un breve piacere. Poi nella bocca ho provato un gusto amaro”. Alla fine avrebbe preferito che fosse consegnato a un tribunale internazionale. “Negli ultimi mesi mi preparavo ad affrontarlo e a chiedergli, fissandolo negli occhi: perché? Perché mi hai fatto tutto questo? Perché mi hai violentato? Perché mi hai picchiata, drogata, insultata?”.
Ritorniamo a quel giorno di sette anni fa. Dopo la cerimonia al liceo, la madre di Safia, parrucchiera, riceve la visita di tre donne in uniforme, inviate dal rais. Lui vuole vederla, darle dei regali. Safia non dubita di niente: anzi, è onorata. Raggiunge la carovana di Gheddafi, nel deserto. Il rais le chiede freddamente di restare con lui. “Avrai tutto quello che vuoi: case, automobili…”, è la promessa. Anche di lasciare in pace la sua famiglia. Mabruka, una dei tre “gendarmi” dell’harem, le consegna biancheria intima e abiti sexy. Le insegna come spogliarsi con lascivia. Per tre notti Gheddafi guarda la ragazza, ma non la tocca. Le dice soltanto: “Sarai la mia puttana”. Poi, rientrato con lei al compound di Bab Al-Azizia, a Tripoli, la violenta. Sarà così per cinque anni.
Safia vivrà assieme ad altre ragazze, in genere più grandi di lei. Loro, però, restano per periodi relativamente brevi nel palazzo, dove il rais vive da solo (la moglie e il resto della famiglia alloggiano in altri edifici del compound). Safia trascorre le giornate a guardare la tv. Non può parlare con le compagne. Non può disporre neanche di un foglio o di una penna. Deve solo aspettare. E aspettare. Che il rais abbia voglia di lei, giorno e notte. La ragazza può contare solo su un’amica, Gala, un’infermiera ucraina, incaricata dei controlli sanitari sull’harem, a suon di analisi del sangue settimanali. Nel palazzo si succedono festini con modelle italiane, belghe e africane o star del cinema egiziano. Danze, cene, musica e orge. Vi partecipano anche i figli di Gheddafi e i suoi più insigni dignitari. Secondo Safia, il rais l’avrebbe obbligata a fumare, a bere whisky e a prendere cocaina. “Lui ne assumeva continuamente. Non dormiva mai”. Passava gran parte dele giornate in un jacuzzi a consultare il computer. Intanto Safia è mantenuta isolata, anche dalla propria famiglia, a parte sporadiche telefonate alla mamma, comunque sotto il controllo dei servizi segreti.
Stanco, però, delle sue depressioni, Gheddafi comincia a cedere. E le consente brevi visite a casa sua. E’ in occasione di una di queste che Safia, travestita da vecchia, riesce a fuggire. Grazie a complici all’aeroporto, vola in Francia. Vi resterà un anno, prima di rientrare, occultata da un’altra identità, nel suo Paese. Presto si oppone alla madre, che vuole sposarla a un suo vecchio cugino. Segue una fuga in Tunisia, dove si sposa con un giovane libico nell’aprile scorso. Vorrebbero rifarsi una vita a Malta o in Italia. Ma lui decide di partecipare alla guerra civile, dove viene gravemente ferito. Ora sono di nuovo insieme. Safia vorrebbe testimoniare in un tribunale, raccontare la sua triste storia. Ma probabilmente non lo farà. “Qui la donna è per forza colpevole”. Ha paura Safia. “Gheddafi ha ancora tanti fedeli in Libia“.