Frank Zappa è un monumento della musica del Novecento, un genio apprezzato sia dai “rockettari” che da Nagano, Boulez, Zubin Metha, Bollani (per dirne alcuni). Nonostante ciò, i suoi estimatori si compongono di più sottogruppi: il primo, il più folto, sostiene di amarlo e ammirarlo (oh, io adoro Zappa!), ma in verità ne sa davvero poco; gli altri, la schiera dei malati, si dividono tra inzappiti, zappofili, zappomani, zappologi, zappiani (e un tempo groupie). Il perché è presto spiegato: l’opera omnia del genio di Baltimora è talmente vasta e complessa da risultare di difficile (e diversa) comprensione. E ciò sebbene sia attraversata dalla “continuità concettuale”, una filosofia che rende “concept” non soltanto i singoli album, ma anche l’intera vita dell’artista. In tutta questa storia, dunque, i più fortunati sono i vecchi fan, i quali hanno potuto accompagnare le peripezie zappiane sin dal 1966, anno d’uscita di Freak Out; nonché chi, a partire dagli anni Ottanta, si è comprato le ristampe di tutti i dischi in versione compact disc, seguendole uscita dopo uscita come fossero una novità (e infatti erano rimaneggiate, sempre in virtù della continuità concettuale). Per gli altri, o per chi volesse avvicinarsi a Zappa da neofita, il rischio è di affogare nel mare magnum della sua opera, finendo per non capirci alcunché: «Ma “Tengo na minchia tanta” di che anno è?»
Oggi, grazie a Michele Pizzi e Arcana, l’esegesi dell’intera opera acquista un nuovo studio. Frank Zappa for president! Testi commentati (pagg. 512, euro 19,50) si cimenta nell’ardua impresa di spiegare la genesi di moltissime canzoni e il significato dei testi, a cominciare da Hungry Freaks Daddy. Un libro utile, anzi utilissimo per tutti coloro i quali negli anni si sono scervellati sul verbo dell’uomo di Baltimora (cosa cazzo vorrà mai dire Youwsa Youwsa Youwsa?), ricevendo da improvvisati traduttori le più disparate e decontestualizzate interpretazioni. Michele Pizzi, psicoterapeuta per vocazione e giornalista a tempo determinato (!), fa di più: non traduce i testi, bensì li inquadra storicamente, mostrandoci come per Zappa ogni singolo brano e tutto il progetto che accompagna l’uscita di un disco non sia mai un’opera compiuta, piuttosto qualcosa in continua evoluzione a seconda del mutare dei tempi. Dunque riproponibile (altrimenti sarebbe “di plastica” come tutta la musica “strettamente commerciale”).
Non è solo una questione stilistica (una stupid song diventa un pezzo rock poi Jazz poi funk poi reggae poi orchestrale), ma anche politica. Rivedere i testi adattandoli all’attualità permette a Zappa di intervenire efficacemente nel quotidiano, e ne fa uno dei più grandi giornalisti americani del Novecento: “un grillo parlante” capace di individuare prima degli altri i pericoli della società contemporanea (Tv, disimpegno, consumismo, spettacolo). Testi spesso cinici e volgari, che non a caso gli costarono processi, censure e, per non turbare il comune senso del pudore, pochi passaggi in radio. Dunque i fan da Oh io adoro Zappa! sono avvisati: capendo quel che dice nelle canzoni forse lo adoreranno un po’ meno. I suoi strali colpiscono infatti quella gente “di plastica” (di volta in volta freak, hippy, punk, colletti bianchi, cocainomani, femministe, discotecari, avvocati), ossessionata dal partecipare allo spettacolo omologandosi alla nuova moda, come tanti oggetti di consumo. Ma anche quell’ipocrisia borghese e “per bene”, considerata da Zappa un autoimposto controllo poliziesco della mente. Evitare i pensieri è la peggiore censura mai apparsa sulla terra, in quanto agisce dentro la testa delle persone come un avamposto, senza più bisogno di controllori (Who Are The Brain Police?).
Naturalmente, leggendo che cosa ha rappresentato Zappa nel Novecento, in mente torna la domanda che Michele Pizzi si pone all’inizio del libro. E se Lui fosse ancora vivo? Cosa avrebbe da raccontare? Ma non solo. Vista la sua ossessione per la televisione “vile e perverso strumento del governo e dell’industria”, nonché per il sesso usato come strumento per abbordare il successo, cosa direbbe di Berlusconi? (Per poi fantasticare sugl’innumerevoli album, ovviamente tripli, che “il Nostro” avrebbe dedicato al bunga bunga).