Non sono mai stato un pasdaràn nel campo delle piste, ma ho sempre sostenuto con moderazione che occorre valutare volta per volta attentamente la necessità di realizzare delle infrastrutture in un ambiente delicato come quello montano e soprattutto valutare la possibilità di percorrere strade (perdonatemi il bisticcio letterale) alternative. Purtroppo, nel caso del Vallone di Comboé ciò non è avvenuto.
Il vallone di Comboé è situato nel comune di Charvensod ai piedi della Becca di Nona e del Mont Émilius, le due montagne che sovrastano la piana di Aosta. Il vallone, che prende il nome dall’omonimo torrente che lo percorre per tutta la sua lunghezza per poi confluire nella Dora Baltea, fino all’estate 2010 era un gioiello che, grazie a punti di accesso particolarmente critici, era rimasto miracolosamente intatto, malgrado una politica regionale che ha sempre dato un impulso notevole ai collegamenti stradali tra i fondovalle e i vari alpeggi disseminati in quota.
L’unica attività economica nel vallone di Comboé è, oggi come in passato, quella agro-pastorale che si svolge in un unico alpeggio ancora funzionante e che nei mesi estivi ospita un’ottantina di capi bovini. Grazie ai suoi rimarchevoli aspetti naturalistici, il Vallone è frequentato dai giovani ospitati dalla vecchia casa della Parrocchia di Sant’Orso e dagli escursionisti e alpinisti.
Nel 1998 il comune di Charvensod acquisisce la proprietà dell’alpeggio di Comboé, con l’intento di iniziarne la ristrutturazione. Peccato che affianchi a questa lodevole iniziativa la decisione di realizzarvi anche una strada di collegamento col fondovalle. Una strada che, inerpicandosi lungo un territorio fragile e instabile, dovrebbe raggiungere l’alpeggio di Comboé dopo 2,5 chilometri e sei tornanti, massicci sbancamenti, e muri di contenimento.
Alla notizia del possibile scempio, si costituisce un Comitato Amici del Vallone di Comboé, che, supportato da Legambiente, e forte di 1.600 firme di cittadini indignati, offre all’amministrazione comunale una soluzione alternativa, e cioè la realizzazione di una monorotaia, come altre che sono state realizzate in Valle d’Aosta o come quelle utilizzate nelle Cinque Terre. Nulla da fare. L’amministrazione non sente ragioni e va avanti sulla strada intrapresa.
Il resto è storia giudiziaria. La Regione rilascia parere favorevole ai sensi della Via. Legambiente impugna il provvedimento davanti al Tar, e il Tar dà ragione agli ambientalisti. Il Consiglio di Stato annulla la decisione del Tar.
Nell’estate del 2010 iniziano i lavori di sbancamento. È la fine per l’integrità del Vallone di Comboé.
Le considerazioni finali sono sempre le stesse. Cosa spinge le amministrazioni pubbliche a ragionare sempre e comunque in termini di strade, anche quando queste comportano un evidente scempio del paesaggio che le stesse amministrazioni, in teoria, dovrebbero tutelare? Perché non si valutano anche soluzioni alternative, quali, specificamente in montagna, monorotaie, teleferiche o funivie, come si fa nelle aree protette? Perché ci si dimentica sistematicamente che la Corte Costituzionale afferma che la tutela del paesaggio viene prima della tutela dell’economia? Domande che rimangono senza una risposta.
Ricordo, tanti anni fa, circa una trentina, una polemica che ebbi con Massimo Mila, che portava ad esempio di tutela del territorio proprio i valdostani. Io sostenevo che così non era e ricordavo le strade, di cui la Valle deteneva un triste primato. Come ricordava allora Francesco Framarin, con le strade valdostane si sarebbe potuto collegare Courmayeur con Capo Passero! Mila mi rispose dicendo che le strade erano il simbolo dell’operosità valdostana. Quella risposta mi piacque e mi rimase impressa.
Da allora, ogni volta che vedo un nuovo angolo della Valle d’Aosta distrutto, commento: “Ecco gli operosi valdostani all’opera!”
Foto di Francesco Cordone