Un giudice di Torino, qualche giorno fa, ha chiesto a una interprete di arabo, convocata per un’udienza penale, di togliersi il velo. La signora, che portava il hijab, cioè un fazzolettone che copre i capelli ma lascia scoperto il volto, si è rifiutata di farlo e ha rinunciato all’incarico, abbandonando l’udienza. Il caso stimola riflessioni contrastanti.
Processualmente e costituzionalmente, il giudice ha avuto torto. Dice l’art. 129 del codice di procedura civile: “Chi interviene o assiste all’udienza deve stare a capo scoperto”. Il codice di procedura penale non dice niente in proposito; c’è una norma di carattere generale, l’art. 471: “Non è consentita la presenza in udienza di persone che portino oggetti atti a molestare. Le persone che turbano il regolare svolgimento dell’udienza sono espulse“. L’art. 129 non poteva essere applicato: riguarda il processo civile e non quello penale. E nemmeno l’art. 471: non è ragionevolmente sostenibile che il velo sia un oggetto “atto a molestare”. Resta l’ipotesi che l’ordine di togliersi il velo sia stato impartito per esigenze legate all’identificazione della persona: ma si trattava solo di un fazzolettone, non di quelle cappe che coprono il volto (niqab e burka).
La pretesa della donna aveva anche un fondamento costituzionale (329 / 1997): “In materia di religione si impone la protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni. Valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati inciderebbe(ro) sulla pari dignità della persona”.
Infine c’è anche un problema di buon senso: che si fa con una suora che talvolta capita di dover sentire come testimone? Ce ne sono alcune con veli ancorati a strutture maestose (ricordo le mie maestre della scuola elementare, le suore di Santa Giovanna Antida) e altre con un piccolo velo (analogo al hijab) e una coroncina (le Brigidine che gestiscono un fantastico albergo in piazza Farnese a Roma). Anche loro, via il velo? Insomma, una decisione discutibile assai.
Però. Da giudice avrei seppellito nel profondo della mente (e dello stomaco, che avrebbe cominciato a dolere parecchio) lo sdegno che il velo delle donne musulmane provoca (dovrebbe) in ogni spirito libero. Ma oggi posso (devo) dire che ogni distinzione tra le persone, non legata a etica e intelligenza, è odiosa e inaccettabile; e che il velo imposto alle donne musulmane è una barbarie, tanto più se accettato “liberamente” dopo secoli di oppressioni e violenze.
Così leggetevi questa: “E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi e di essere caste e di non mostrare, nei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciare scendere il velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne”. (sura 24, 31). E pensate allo stretto legame che sempre c’è tra fanatismo, stupidità e violenza. E sì, sono d’accordo, non solo nell’Islam.
Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2011