La tendenza, in ambito musicale, è quella di riproporre suoni vintage, come quelli che caratterizzavano gli anni Sessanta e Settanta. Eppure con il progresso tecnologico e con le nuove strumentazioni a disposizione di artisti e musicisti ci sarebbe tanto da esplorare. Certamente c’è un’evoluzione che marcia in maniera decisa in un modo che sembra casuale con un rincorrersi fra passato e presente, fra il classico e la ricerca. Ma è innegabile che le motivazioni di un ritorno al passato siano oggi molteplici: la più accreditata è che, allora come oggi, quella musica è percepita come più pura, più sentita, più vera. La conseguenza è che, di questi tempi, chi è sprovvisto o abbia smarrito la bussola, diventa davvero molto difficile riuscire a orientarsi e a stare al passo con i tempi nell’infinito e in continua espansione universo musicale.
Bastava recarsi al concerto che si è tenuto ieri all’Atlantico di Roma (l’ex Palacisalfa) di una delle band più in voga del momento, i Fleet Foxes, per calarsi nelle magiche atmosfere dei bei tempi andati e respirare una bella boccata d’aria in stile Seventy per una serata indimenticabile. Nati nel 2006 e notati da Tom Scanlon del Seattle Times – di loro scrisse di essere rimasto stupito dai loro testi e dalla loro maturità a livello musicale – , è grazie a questa band, ancora semisconosciuta nel Belpaese, che si è originata una rivoluzione silenziosa, quella del folk-pop dalle tinte psichedeliche, con strepitosi intrecci vocali, un po’ da musica medievale e – allo stesso tempo – con un forte richiamo alle grandi band del passato come Crosby Still Nash e Young o gli Zombies o i Pearls Before Swine. Del resto le contaminazioni nei Fleet Foxes sono ampissime, sia in termini spaziali che temporali e nel loro repertorio è facile scorgere un bel pezzo della musica statunitense di almeno mezzo secolo con aggiunta la tradizione British, compresi vari filoni folk antichi e canti popolari.
La cosa paradossale è che i Fleet Foxes sono un gruppo di Seattle, addirittura sotto contratto con la Sub Pop e se si pensa a quel che veniva fuori da questa città e da quell’etichetta venti anni prima, non si può che rimanere disorientati. Loro però procedono a testa bassa, incuranti di quel che è e di quel che è stato: sin dal loro esordio i Foxes – nonostante sia facile che durante i concerti anche loro sfoggino camicie di flanella come quelle dei boscaioli, tipiche dei gruppi grunge, e si facciano crescere lunghe barbe e siano dediti all’uso di violino, banjo e chitarra – mostrano quanto poco in verità il grunge abbia influenzato la loro musica e il loro modo d’essere. Ci sono sicuramente molto di più Simon&Garfunkel o Crosby Still Nash & Young nei loro dischi che i Pearl Jam o i Nirvana. Con la crescita di popolarità nell’ambiente locale, la band nel 2007 comincia a lavorare al primo album, i testi delle canzoni attingono all’immutabile ed eterno vocabolario del folk e del rock: sentimenti da figli dei fiori d’antan, in grado di penetrare l’animo di una generazione disillusa e poco disposta a sognare, loro cantano la campagna, le immense distese di verdi prati e le colline in fiore, e poi le montagne ora assolate ora imbiancate, orizzonti mozzafiato e i fiumi, il sole e i colori che si alternano nel naturale ciclo delle stagioni.
Durante il concerto romano, i Fleet Foxes hanno presentato dal vivo il loro secondo album, Helplessness Blues, di una qualità e d’una solennità sorprendenti a partire dalle architetture vocali del sestetto di Seattle: gran parte del merito della riuscita del progetto è di Robin Pecknold, barbuto leader della band dalle capacità immense, ma dal basso profilo che ne caratterizza la persona. Lui è noto per il suo perfezionismo, la sua visionarietà e il suo essere in perenne tensione verso la ricerca del miglioramento. Assieme ai suoi Fleet Foxes, una nutrita schiera di altri gruppi tra i quali i My Morning Jacket, gli Avett Brothers, i Menomena, i Grizzly Bear, i Mumford and Sons e i Midlake, solo per citarne alcuni, sono quel che di buono il panorama musicale sulla scena d’Oltreoceano propone. Qualcuno si è sbilanciato e ha assegnato anche un nome al nuovo genere – che, come detto, tanto nuovo non è – : “Cosmic Americana”, resta solo da vedere la reazione commerciale che gli riserverà il pubblico.