Forse, il 3 dicembre, non sarà l’ultimo concerto. Sicuramente si fermerà per un po’ di tempo. C’è un disco, ci sono i libri, c’è Pavana e duemila altri impegni. Lui, il maestrone, come lo chiamano a Bologna, dice che ci sta pensando.

E’ in età abbondantemente pensionabile, anche secondo i canoni berlusconiani, ma rinunciare a quel rapporto così intimo che ha con il palcoscenico non sarà facile. Quando inizia a cantare – da giovane stava seduto, oggi rigorosamente in piedi – è sempre un problema portarlo via. Spesso ci deve pensare sua figlia, Teresa, a fargli notare che si è fatto tardi. Non verrebbe mai via.

Anche perché gioca a fare il vecchio maestro, soprattutto con i ragazzini della prima fila. Parla durante i concerti, racconta aneddoti. Nelle sue parole, oggi, non c’è nulla di perentorio. Rita Allevato, la sua storica manager, dice che “si fermerà per un po’, quello sì. Perché Bologna è l’ultima data del tour, di questo tour. Poi ne parleremo”.

La notizia, rimbalzata sui siti, ha lasciato tutti a bocca aperta. Perché Guccini è sicuramente l’ultimo dei cantori di una certa scuola, quella nobile, un gruppetto ristretto di persone che hanno fatto la canzone d’autore in Italia, forse le poesie messe in musica che non hanno paragoni se non nella lontana America di Bob Dylan.

E, per tutti quelli che su quelle note sono cresciuti e sono stati accompagnati in quel cammino che ti apre le porte sull’età adulta, quella da cui non si torna indietro,  sarà il giorno in cui una vecchia scuola chiuderà per sempre. Fabrizio De André ci ha lasciati, Ivano Fossati ha annunciato in maniera perentoria che non tornerà più a cantare dal vivo, Lucio Dalla è sempre più interessato a dirigere musical, film, scoprire talenti, che non a cantare. Francesco De Gregori non ha più il pubblico di una volta, relegato in pub e discoteche, “un ritorno alle origini”, dice lui. Ma – aggiungiamo noi – i palazzetti non riesce più a riempirli.

“Vedremo”, sono quelle parole che non vorresti sentire, anche perché il pubblico di Guccini è l’unico che abbraccia almeno tre generazioni. Se quel che vedremo si traducesse in una pensione potremmo dire addio al cantautorato italiano, almeno quello che suona dal vivo.

Ci auguriamo che ci ripensi, ma anche lui, come lo stesso Fossati, difficile che apra bocca per dire una sciocchezza. Al limite se ne sta zitto, chiuso nella sua casa di Pavana, dove ha deciso di ritirarsi. I  giovani dovrebbero andare a rispolverarsi quei filmati del live anno 1984, sempre Bologna, partenza e ritorno: fu la piccola Woodstock italiana, quel 21 giugno, di un caldo appiccicoso.

Centocinquantamila persone, forse più che meno, in piazza Maggiore. Mai vista una cosa del genere. Mai visto il maestrone così emozionato, tanto da inventarsi una scaletta nuova, visto che chiuse, inaspettatamente, e viste le ripetute urla, con Un altro giorno andato, che non doveva essere in scaletta, e non con La Locomotiva, come invece fa ininterrottamente da 40 anni.

Apertura con Canzone per un’amica (nessun romanticismo, solo perché la ballata necessita di un’estensione vocale minore rispetto alle altre) e chiusura con la storia dell’anarchico Pietro Rigosi, che a 28 anni, il 20 luglio 1893, saltò su una macchina a vapore con l’intenzione di andare a schiantarsi contro un treno di prima e seconda classe, ma finì per saltare lui stesso deviata la sua corsa in un binario morto.

Tredici strofe scritte in mezz’ora, proprio come nascono i capolavori. E non ci stupirebbe Guccini se così, mezz’ora prima, ci dicesse arrivederci, non ho più l’età per stare due ore e mezzo sul palco.

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