L’obiettivo era fare in fretta. E così è stato. Un anno e mezzo dopo il maxi blitz del 13 luglio 2010 la criminalità organizzata lombarda incassa la sentenza di primo grado. Assolto l'ex assessore della Provincia di Milano Antonio Oliverio. Durante la lettura del dispositivo, i detenuti dalle gabbie hanno inveito contro il giudice Roberto Arnaldi e gli avvocati: "Buffoni!"
L’estate scorsa, l’accusa aveva chiesto 118 condanne e l’assoluzione di Antonio Oliverio, ex assessore di origini calabresi, la cui carriera, in riva al Naviglio, è cosa nota: prima nella giunta provinciale di Filippo Penati (quota Udc), dopodiché, transfugo, tra i maggiori sostenitori di Guido Podestà. Per Oliverio anche in primo grado è arrivata l’assoluzione.
Il carcere invece è arrivato per 110 imputati con pene che vanno da un massimo di 16 anni di reclusione per Alessandro Manno, capo della locale di Pioltello, a un minimo di 1 anno e 4 mesi per l’ex sindaco di Borgarello (Pavia), Pasquale Valdes. Cinque le assoluzioni, quattro non luogo a procedere: 3 perché già giudicati per i medesimi fatti in altro procedimento, un quarto per estinzione del reato a causa della morte dell’imputato. Anni di carcere arrivati dopo che ieri si è consumata una giornata drammatica nell’aula bunker di via Ucelli di Nemi profonda periferia milanese nel quartiere di Ponte Lambro. Dopo 32 ore di Camera di consiglio.
Riassumiamo: in mattinata è atteso il verdetto. Poi posticipato nel pomeriggio. Motivo ufficioso: lo sciopero di alcuni penalisti. L’orario fissato per le 17 e 30 si allunga di un’ora. Il giudice Roberto Arnaldi non fa capolino. Fuori, intanto, la nebbia ricopre tutto: le case popolari e l’enorme cubo di cemento che a metà degli anni Novanta ha ospitato i primi maxi-processi a mafia e terrorismo. Un’ora dopo ecco il cancelliere: udienza rinviata e aggiornata alle 17 di domani (oggi). Poche parole e scatta la bagarre dietro le sbarre. Gli imputati non ci stanno: urlano, protestano. Sono venuti dalle carceri di mezza Italia per ascoltare il verdetto. Con loro i legali. Ma non c’è nulla da fare. Il giudice Arnaldi ha deciso di non decidere e di rimandare. Smorzati gli animi, alla fine, qualcuno farà notare che un rinvio può essere normale perché il giudice “deve giudicare sulla vita di 119 persone”. Ma gli applausi e gli insulti verso magistrati e avvocati diventano ancora più forti durante la lettura del verdetto.
“Un procedimento gigantesco”, lo ha definito il pm Alessandra Dolci nell’incipit della sua requisitoria. A tal punto, confessa in aula, “che anche io ho perso il conto del numero dei faldoni”. Oltre cinquecento per migliaia di pagine. E una stanza al settimo piano della Procura utilizzata come archivio. Un labirinto, quasi indistricabile, di intercettazioni, proroghe, informative e annotazioni in calce alle quali si alternano le firme di quattro polizie giudiziarie: carabinieri, squadra Mobile, Guardia di finanza e Direzione investigativa antimafia. Insomma, l’incipit dell’accusa da solo traduce il senso di questo processo. “E io – dirà la Dolci – devo dirle, giudice, che non invidio proprio il suo compito”.
Ora la sintesi è stata trovata. Per capire meglio, però, bisognerà aspettare i 60 giorni previsti per il deposito delle motivazioni. Pochi minuti fa, intanto, il giudice ha snocciolato il dispositivo della sentenza. Voce ferma tra le grida degli imputati nelle gabbie. Da Giuseppe Domenico Albanese a Pasquale Zappia (condannato a 12 anni) nominato ‘capo dei capi’ durante una riunione a Paderno Dugnano, nel centro intitolato a Falcone e Borsellino (guarda il video del summit). In mezzo buona parte della nobiltà della ‘ndrangheta lombarda. Gente come Cosimo Barranca – condannato a 14 anni di reclusione – capo della locale di Milano e contatti diretti con la Provincia, organo di comando dell’intera organizzazione, capace di mantenere rapporti con uomini della cosiddetta zona grigia come Pietro Pilello, manager in passato presente in molti cda di società di Regione Lombardia o Carlo Antonio Chiriaco, ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia. Amico di politici e boss insospettabili, come quel Pino Neri, ritenuto il capo della locale di Pavia, ma che prima di essere un mafioso è un rispettato avvocato tributarista.
Zona grigia, dunque. Tradotto: mafia, impresa, politica, massoneria. Pino Neri (imputato nel processo ordinario con rito immediato) è massone dichiarato. Anche questo sta dentro al processo che oggi ha visto una sua prima parziale conclusione. Ma c’è dell’altro: l’assetto criminale, il controllo del territorio, i numeri degli affiliati, i riti, gli incontri, tutti officiati all’ombra del Duomo e nella Lombardia che corre svelta verso Expo 2015. Uno dei grandi protagonisti è certamente Vincenzo Mandalari, boss e imprenditore, a capo della locale di Bollate e condannato questa sera a 14 anni. Finito nella rete del 13 luglio 2010, Mandalari si dà alla latitanza. Il padrino in fuga, però, non va molto lontano, ma resta nell’hinterland milanese, dove può contare su molti appoggi. Meno di un anno e il 22 gennaio i carabinieri di Monza guidati dal colonnello Giuseppe Spina lo fermano alla stazione di San Giuliano Milanese. Il suo è un nome che conta. E che compare centinaia di volte nelle carte dell’inchiesta. Da lui, in parte, inizia l’indagine. Dalle sue lunghe chiacchierate con i compari di turno. In macchina o in ufficio, Vincenzo Mandalari parla di riti e assetti della ‘ndrangheta. Snocciola nomi e inconsapevolmente fornisce agli investigatori una geografia mafiosa in presa diretta, svelando la presenza di venti locali e almeno cinquecento affiliati. In Lombardia, naturalmente. Non una semplice regione d’Italia, ma per la ‘ndrangheta un vero e proprio mandamento. Il quarto dopo i tre storici (Ionico, Tirrenico e Reggio città). Tutto dunque si tiene nella mappa mafiosa. E chi tenta la sortita, chi vuole fare di testa propria, viene punito. Muore per questo Carmelo Novella, il boss scissionista che voleva fare la Lombardia ma che finì ammazzato ai tavolini di un circolo a San Vittore Olona.
Era l’estate del 2008. E in fondo di ‘ndrangheta allora si parlava poco. Anche se nel luglio di quello stesso anno il Gico di Milano guidato allora dal colonello Domenico Grimaldi sbaragliò la cosca Barbaro-Papalia. L’inchiesta Infinito era appena iniziata. Ma già si concludeva l’indagine Cerberus. Quella era mafia con tutti i quarti nobiltà al proprio posto. Un’organizzazione capace di monopolizzare l’intera partita del movimento terra in Lombardia. Facce pulite e boss in coppola, piccoli principi della ‘ndrangheta e imprenditori lombardissimi. Sull’inchiesta pesano già due gradi di giudizio. Caposaldo per tutto quello che è venuto dopo. Nel 2009 di nuovo Barbaro-Papalia. Di nuovo la terra. Ma con qualcosa in più: la ‘ndrangheta che fa l’immobiliare, ricicla, investe e si accomoda nel pieno centro di Milano in via Montenapoleone. A girare l’anno, nell’inverno 2010 arriva la politica e i suoi rapporti con boss e colletti bianchi. Sul piatto consiglieri comunali, provinciali e regionali. Ci sono particolari che inquietano. Ci sono assessori che lavorano a libro paga delle cosche. C’è una politica lombarda sempre più in scacco e sotto ricatto. E ancora, il primo luglio 2010, ci si trova di fronte alla ‘ndrangheta che da tempo pensa ad Expo. E’ l’inchiesta sulla cosca Valle che apre scenari inediti. Ci sono le famiglie storiche ma anche nomi nuovi. Come quello di Paolo Martino (poi coinvolto nell’inchiesta Caposaldo – marzo 2011), manager in doppio petto, capace di giocare su tavoli trasversali: dalla politica agli affari alla notte di Milano. Conosce il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, ma anche Lele Mora e attraverso l’impresario dei vip contatta Luca Giuliante, avvocato (per qualche tempo legale di Ruby Rubacuori), ma soprattutto tesoriere del Pdl. Si segue la ‘ndrangheta e si scopre il progetto d’incontro (mai avvenuto) tra Martino e il presidente di Bpm Massimo Ponzellini, recentemente finito nei guai per un finanziamento da 148 milioni di euro alla società di Atlantis di Francesco Corallo, figlio di quel Gaetano Corallo ritenuto vicino al boss di Catania Nitto Santapaola. Un incontro d’affari, dunque, durante una cena per finanziare la campagna elettorale di Guido Podestà per le provinciali di Milano del 2009. Dove? In una delle residenza di Silvio Berlusconi.
La stampa così s’incuriosisce, gli articoli arrivano, l’informazione pure. Non ancora la coscienza. Ce lo racconterà proprio Infinito. “Guardate – chiosa Ilda Boccassini – che davanti alla mia porta non ho imprenditori disposti a denunciare”. Frase col botto. Come sempre quando parla Ilda “la Rossa”. E del resto a spulciare le carte dell’inchiesta s’incappa in decine di incendi, danneggiamenti, attentati. Tanti fatti, poche denunce. L’imprenditoria lombarda non lo fa. Ha paura, vero. Ma in certi casi dentro a quegli affari loschi ci trova un bel tornaconto. E passi se i propri soci per concludere affari non esitino a minacciare.
Affari, politica, e mafia. Il menu è questo. Il 13 luglio 2010 lo ha raccontato. La sentenza di oggi lo ha certificato. Il sigillo c’è per la parte criminale. Non per la politica. O meglio non ancora. Perché i rapporti ci sono e ci sono stati. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, ne conta ben 13 di politici, lombardi in rapporti più o meno diretti con la ‘ndrangheta. Dice di più: questi politici hanno ricevuto i voti delle cosche. Accuse gravi che trovano parziale conferma nelle carte, non, però, negli avvisi di garanzia o nelle sentenze.
Al di là di tutto, il romanzo criminale scritto oggi resta traccia indelebile e plastica dimostrazione di quello che la classe dirigente lombarda nega ormai da troppo tempo: la mafia a Milano esiste.