Qual è il potenziale comunicativo degli utenti dei social media? È rappresentato dalle migliaia di cittadini che hanno chiesto notizie sulla moschea di Sucate o da quelli che hanno chiesto invano il taglio dei costi della politica durante il drammatico agosto italiano? Costituiscono ‘il popolo della Rete’ evocato a intervalli regolari come unione disarmonica di persone che si indigna, si infuria, fa partire i tam-tam o chi usa Facebook per dare informazioni sull’alluvione a Genova coordinando anche i lavori di ripulitura delle strade?

Probabilmente le dinamiche relazionali della Rete rappresentano tutto questo: opportunità e limiti, battaglie ben condotte e appelli sordi, elementi di costruzione e moti di frustrazione, ottimismo e pessimismo. Gli strumenti, non lo si dirà mai a sufficienza, sono neutri: non sono portatori in sè di democrazia, partecipazione, sviluppo e progresso. Favoriscono l’accelerazione di processi già profondi nella popolazione e non impediscono alle parti di non parlarsi quando non c’è la volontà di dialogare. Non creano processi da zero.

Il mezzo è certamente il messaggio, ma questo non vuol dire che Twitter corrisponda automaticamente a democrazia; piuttosto Twitter è lo strumento ideale per rendere visibili sentimenti collettivi, per far emergere un’identità di massa senza soffocare la creatività individuale.

I social media, comunque, offrono possibilità inedite e questo non può essere mai ignorato dagli utenti. Eppure accade molto spesso. Specie quando si usano gli strumenti della Rete in modo istintivo, irrazionale, im-mediato. Quando ci si sfoga ci si dimentica del fatto che una scelta comunicativa sbagliata ‘pesa’ quanto una scelta giusta, che non è certamente l’utente a poter stabilire quando va preso sul serio e quando no, ma piuttosto è il suo pubblico che deciderà se e come farlo.

Il pubblico, poi, è un concetto molto più esteso ed estensivo di ciò che si crede (e talvolta, si vorrebbe): se scrivo una fesseria su Facebook, può essere condivisa e letta anche da utenti non presenti tra i miei amici. E poi quella fesseria può uscire da Facebook e finire su Twitter, su Google+, persino sui giornali e in televisione.

L’individuo, specie se inserito in un contesto che è capace di influenzare (e chi non lo è? Chi non ha amici su Facebook e follower su Twitter?), ha dunque un potenziale di cambiamento fortissimo. E non può dimenticarsene mai. Siamo nella stagione della responsabilità sociale individuale. Pare un ossimoro ma non lo è: ogni azione individuale interviene su un contesto. Scrivere su Facebook e Twitter può apparire una sorta di ‘pensiero a voce alta’, ma è molto di più, è un piccolo comizio.

Proviamo ad applicare questa teoria a un recente caso di mobilitazione collettiva: la reazione festante dopo le dimissioni di Berlusconi e l’attacco indistinto a tutta la classe politica che ha governato. Questa reazione ha diviso gli analisti.

Aldo Cazzullo ha ritenuto eccessive quelle scene, irrispettose nei confronti degli sconfitti, incoerenti rispetto sia allo stile dei nuovi governanti, sia rispetto allo scenario politico-economico in cui si trova il Paese.

Marco Travaglio ha ritenuto quella festa un normale gesto liberatorio, l’ovvia reazione ad anni tristi, un diritto sacrosanto.

Difficile stabilire chi abbia ragione, forse entrambi. Però c’è un rischio: quei festeggiamenti, enormemente amplificati dalla Rete, possono aver ricompattato il Pdl, almeno per il momento? Un gruppo attaccato dall’esterno si sfalda o si unisce? Non è che quei caroselli mediatici hanno portato a far maturare un sentimento di rivincita, se non addirittura di vendetta, da parte della classe dirigente uscente nei confronti degli italiani?

È molto difficile coordinare tante spinte individuali, seppur orientate nella stessa direzione, né si può chiedere a tutti gli utenti di avere capacità di analisi, fondamenti di tattica politica e attenzione maniacale agli effetti di tutto ciò che si scrive. Però bisogna provarci, sapendo che i social media costruiscono e distruggono con la stessa potenza e facilità.

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