Il massacro di un numero ancora imprecisato di manifestanti in piazza Tahrir al Cairo segna una nuova tappa delle rivoluzioni arabe. Il regime militare, appoggiato da Stati Uniti ed Arabia Saudita, ha deciso di dare una risposta esclusivamente repressiva alle aspirazioni alla democrazia e alla giustizia sociale delle masse egiziane. Come affermato dall’unica donna candidata alle elezioni presidenziali, Buthaina Kamel: «I generali egiziani sono criminali e fuorilegge. Il Consiglio supremo delle forze armate è come Mubarak». Potete essere certi che stavolta nessuno chiederà l’intervento armato della Nato e dell’Occidente. Così come non è stato richiesto rispetto ai massacri avvenuti in Yemen e in Bahrein, in quest’ultimo Stato con diretta partecipazione di un contingente armato saudita. Mentre anche in Siria infuria la repressione, l’opposizione rifiuta giustamente l’intervento militare straniero e chiede invece quello delle Nazioni Unite come osservatori ed interposizione, che avrebbe dovuto essere fatto anche in Libia, se non avessero avuto la meglio le mire della Nato e delle potenze occidentali.
Oggi più che mai si disegna il rapporto di proporzionalità inversa fra guerre e rivoluzioni. La guerra, in tutte le sue forme distrugge a fondo il tessuto sociale, con i suoi lutti e i suoi danni, non solo materiali; la rivoluzione al contrario, anche se fa uso in una certa misura della violenza, ricompone la società e ne risana i tessuti. Un possibile paragone, tratto dal campo medico, è quello fra una malattia terminale e una terapia. E la tendenza alla guerra è tornata forte, anche come risposta classica alla crisi in atto.
Il giornalista israeliano Gideon Levy, direttore di Haaretz, ha messo sotto accusa la totale irrazionalità del governo Netanyahu, che di tale spinta alla guerra costituisce oggi l’interprete più importante e pericoloso su scala mondiale (vedi Internazionale dell’11/17 novembre 2011). Irrazionalità che si manifesta, secondo Levy, nella costruzione di nuovi alloggi per i coloni nei territori occupati, la scelta di rafforzare Hamas concedendo la liberazione di detenuti appartenenti esclusivamente a tale organizzazione in cambio di quella del caporale Shalit (mentre resta in carcere un leader di Fatah del calibro di Marwan Barghouti, che sarebbe destinato a svolgere un ruolo insostituibile in un vero negoziato di pace), il peggioramento delle relazioni con la Turchia e la prosecuzione dell’occupazione dei Territori palestinesi che a detta di Levy «danneggia Israele più di ogni altra cosa». Ma la più chiara dimostrazione dell’irrazionalità di Netanyahu e del suo governo di estrema destra, è costituita dai progetti di bombardare l’Iran, che rafforzano il regime degli ayatollah, già corroborato dall’invasione statunitense dell’Iraq, portando anche l’opposizione a riallinearsi ad Ahmadinejad ed allontanando quindi la prospettiva della ripresa della primavera iraniana.
Il pretesto dell’aggressione è il programma nucleare iraniano che prevederebbe la costruzione di armi nucleari, scusa del resto già usata per la guerra all’Iraq da parte di Bush. A tale riguardo, occorre affermare con forza che, come sostiene da tempo l’Associazione dei giuristi contro le armi nucleari, il disarmo nucleare deve essere raggiunto dando effettiva attuazione all’art. 6 del Trattato di non proliferazione nucleare, che prevede l’apertura da parte delle potenze nucleari di negoziati in buona fede per giungere allo smantellamento dei rispettivi arsenali. Una norma che dovrebbe essere osservata anche da parte degli Stati che non sono parte del Trattato di non proliferazione, come ad esempio Israele. Non è infatti ammissibile il double standard in materia di armi nucleari, che consegna la chiave della morte atomica solo nelle mani di alcuni Stati. Il Doomsday clock che marca il tempo rimanente fino alla fine del mondo per effetto di una catastrofe nucleare, segna oggi sei minuti a mezzanotte.
Afferma Levy che il governo Netanyahu sta anche sprecando l’occasione offerta dalle rivoluzioni arabe, dato che «le forze armate sono disgregate e la società è impegnata a risolvere i problemi interni». Si potrebbe aggiungere che le rivoluzioni mediterranee offrono un’occasione storica per un nuovo dialogo fra i popoli basato sugli interessi comuni. Del resto, anche in Israele si è costituito un movimento di indignati. E la guerra contro il nemico esterno è da sempre uno dei modi migliori per disinnescare le proteste e le rivendicazioni sociali. Così come la rivoluzione è il migliore antidoto alla guerra e alla distruzione nelle sue varie forme. L’universalismo democratico dei popoli in lotta contro la dittatura della finanza dovrà alla fine prevalere sui particolarismi e i fondamentalismi di ogni genere, così come la vita, rinnovandosi, prevale sulla morte e il nuovo sul vecchio.