Spesso se si vuole capire come va il mondo bisogna andare a fare shopping. O almeno accompagnare la propria consorte in questo incrollabile rito. A me è successo qualche giorno fa di entrare nello store di Abercrombie & Fitch a New York. Il marchio spopola fra giovani, giovanissimi e non solo: mi dicono che una sorta di commercial church come questa esista anche a Milano: non so.

Ciò che so è che non si entra in un luogo (negozio è termine del tutto sbagliato) del genere: si viene fagocitati, spersonalizzati, mangiati vivi. Entri persona e pochi metri dopo è come se ti avessero spogliato di tutto e ti avessero trasformato in qualcos’altro. Da possibile acquirente, o almeno turista curioso, diventi granellino di una maestosa operazione di trasformazione. Se riesci a mantenere un minimo di lucidità mentale comprendi in un attimo come funzioni la macchina del consenso a tutt’altri livelli.

Vado in sintesi: davanti all’ingresso c’è un modello tartarugato a torso nudo che ti accoglie e ai lati due maggiordomi (età media 20 anni) che salutano con un un “Hi, guys!” (“Ciao ragazzi!”) anche i malcapitati ottuagenari (perlopiù italiani) che incuriositi varcano la soglia del girone infernale. Piomba non si sa da dove una fotografa che immortala le signorine e signore che si fanno fotografare con l’anonimo ma prestante modello tipo tronista.

Lasciate le speranze nell’androne, ecco che inizia la trasformazione. Dentro è buio o quasi, nessuna finestra. Talvolta non ci si vede proprio ed è un’impresa anche capire di che colore sia una camicia. Musica a palla: non house, ma una disco morbida, un pop rassicurante con bassi sparati che ti rimbombano nel petto. Parlare è impossibile: più che altro ci si esprime a gesti. Quando ci si trova, almeno, perché ciò che si muove fra un bancone e l’altro è una massa informe trasformata dalle regole del luogo.

Dopo vista e udito, tocca all’olfatto: ovunque impera un afrore che ti penetra nelle narici e sui vestiti e che sembra darti dipendenza dopo qualche secondo. Ogni pezzo di stoffa che sfiori scatena un’ondata di profumo che ti scrollerai di dosso solo dopo un’ora di doccia. Poi il tatto: ogni articolo è impilato in modo da essere davvero sette piani di morbidezza, altro che carta igienica. Cerchi una maglietta e la tua mano affonda in un’ondata di tessuto amniotico. Non entri da Abercrombie, ti fai di Abercombie.

Assisti a signore di età indefinibile che acquistano coulotte da ragazzina del college. Signori panzuti che fanno il pieno di camicie che non potranno mai indossare perché, loro non lo sanno, ma le taglie sono per ragazzini americani burgerizzati mica per quaranta-cinquantenni pastadipendenti. Il tempo non c’è più perché non ci sono orologi e non puoi vedere il tuo al polso.

Quando riesci a uscire (e non è facile perchè non ci sono indicazioni, le casse non sono al fondo dello store e se chiedi informazioni a un addetto appena uscito da Glee scorgi solo un paio di labbra che si muovono) capisci come si fa a costruire un acquirente e comprendi che il sistema funziona anche quando devi coistruire un popolo di decerebrati. E ti viene un agran voglia di andare a comprare un etto di salame cotto dal salumiere all’angolo, dove ci sono ancora. Anche lì c’è profumo: ma almeno ti fa venir fame e non ti dà dipendenza.

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