Anni fa, quando lavoravo nella redazione di un giornale di annunci immobiliari, conobbi un uomo che all’apparenza conduceva una vita normale. Faceva il venditore di spazi pubblicitari, veniva ogni mattina in ufficio perfettamente rasato, con l’abito, la camicia e la cravatta, l’orologio da polso e la borsa di pelle piena di contratti in bianco. Faceva i suoi giri presso i clienti, rientrava in ufficio a pomeriggio inoltrato e si fermava fino a sera per lavorare al computer.
Tempo dopo seppi che quest’uomo aveva un segreto. A causa di un divorzio oneroso era finito con le spalle al muro e non poteva più permettersi di pagare l’affitto di una casa. Aveva venduto la macchina e si era tenuto un box nel quale tornava la notte per dormire. Per l’igiene personale usava i gabinetti di una stazione. I sabati, le domeniche e i giorni di festa li passava a spasso per la città.
Di recente mi è tornata in mente la storia di quest’uomo (del quale, finito il mio lavoro nella redazione di quel giornale, non ho più avuto notizie) perché mi sono imbattuto in un libro di grande interesse dal titolo Diario di un senza fissa dimora (Raffaello Cortina Editore). L’autore è il grande etnologo e antropologo francese Marc Augé. Si tratta di un romanzo, o meglio, di un’«etnofiction», come la definisce lo stesso Augé, che racconta la storia di un vagabondo “di lusso” dei giorni nostri, un uomo che, arrivato all’età della pensione, non riesce più a far fronte alle spese e decide di fare a meno di una casa, del televisore, del cellulare e di tutto il resto, per rifugiarsi nella sua Mercedes e vivere in tutto e per tutto come un Senza Fissa Dimora.
Fin dall’introduzione del libro, Augé ci mette al corrente di un fenomeno sociale di cui, credo, molti non saranno a conoscenza: “In questi ultimi anni, molti di coloro che operano nell’assistenza pubblica e nelle organizzazioni caritative segnalano la comparsa di una nuova categoria di poveri: hanno un lavoro, ma non un reddito sufficiente per pagare l’affitto. Alloggiano dove possono: in un centro d’accoglienza, presso amici o addirittura nella propria automobile”. Si tratta, da quanto si intuisce, di un fenomeno in progressivo aumento, tanto più in tempi come questi caratterizzati da una feroce e prolungata crisi economica che forse non ha mostrato ancora il suo aspetto peggiore.
Ciò che maggiormente colpisce della vicenda messa in scena da Augé è la progressiva perdita del senso di identità e delle relazioni col mondo che gradualmente soffoca il protagonista della storia. “Non essendo io più nessuno,” – si legge a un certo punto – “credo di percepire più intensamente di quanti hanno una vita più stabile e solida della mia l’assoluta gratuità della mia presenza in città; stavo per dire sulla terra, ma avrebbe un suono troppo metafisico…”.
Credo che in giro, in questo momento, ci siano ben poche letture puntuali come questa nel tratteggiare i segni e i pericoli di un’epoca economica come la nostra. Un momento storico in cui non siamo più abituati a destreggiarci nelle situazioni di improvvisa indigenza, e in cui la povertà è qualcosa di diverso da quello che era una volta, ossia una realtà scomoda ma nella quale, in qualche modo, gli uomini riuscivano a barcamenarsi. La domanda che mi faccio da molto tempo, e che mi ripropongo dopo aver letto questo libro, è allora la seguente: assuefatti come siamo all’illusione della ricchezza, in un futuro prossimo saremo ancora capaci di essere poveri?