Il 24 novembre del 1991 a Londra moriva di Aids il leader riconosciuto dei Queen: finiva il cantante, iniziava la leggenda di un artista capace di entrare di diritto nella storia della musica moderna
Freddie Mercury, leader e frontman dei Queen, è morto per complicazioni causate dall’Aids il 24 novembre di 20 anni fa. Una morte che oggi è celebrata come l’inizio del mito, ma che allora venne accolta come la controprova del legame indissolubile tra Aids, omosessualità e stravizi. Erano gli anni in cui la sindrome da immunodeficienza acquisita era un marchio di infamia, noto più per le linee viola dello spot televisivo che per una vera e propria campagna di informazione e prevenzione.
Ma l’attenzione per l’Aids come malattia con pari dignità rispetto alle altre, era arrivata il giorno prima, il 23 novembre 1991, quando Freddie aveva deciso finalmente di mettere a tacere i rumors sul suo stato di salute con un comunicato ufficiale vergato dal suo letto di agonia di Londra: “Desidero confermare che sono risultato positivo al virus dell’HIV e di aver contratto l’AIDS. Ho ritenuto opportuno tenere riservata questa informazione fino a questo momento al fine di proteggere la privacy di quanti mi circondano. Tuttavia è arrivato il momento che i miei amici e i miei fan in tutto il mondo conoscano la verità e spero che tutti si uniranno a me, ai dottori che mi seguono e a quelli del mondo intero nella lotta contro questa tremenda malattia”.
Uno choc globale, per fan e gente comune, per i media di tutto il mondo. Uno choc che non ha avuto nemmeno il tempo di essere elaborato, visto che 24 ore dopo il cuore di Freddie aveva cessato di battere. Finisce la vita, inizia la leggenda. E’ questa la frase tipica, forse un po’ retorica, che si usa in casi del genere. Ma è la pura verità e Freddie Mercury, insieme a Elvis Presley e John Lennon, Jim Morrison e Jimi Hendrix, entrava a pieno diritto nel ristretto club degli immortali della musica.
Una leggenda che sarebbe sbagliato e ingiusto attribuire solo alla pur ingombrante personalità del leader dei Queen o alle sue abitudini sessuali, così rivoluzionariamente ostentate in epoca di omosessualità low profile. Il mito è tutto musicale, fatto di talento e voce inimitabile, di sonorità folle e presenza scenica mai vista prima. Da ‘Bohemian Rapsody’ a ‘Somebody to love’, da ‘Who wants to live forever’ a ‘Under pressure’, una lunghissima serie di successi, una marcia trionfale verso le vette impervie del successo commerciale e di critica.
Il bello di Freddie Mercury, in fondo, era proprio questo: riuscire a mettere d’accordo i palati fini dei critici musicali con la pancia della gioventù mondiale degli anni Settanta e Ottanta. E non è cosa da poco, soprattutto in anni in cui i giovani si erano completamente isolati dalla società, dal “sistema”, per rifugiarsi nei paradisi illusori dell’ideologia, della droga o del sesso un tanto al chilo. Ma la leggenda di Freddie, che ancora oggi è vivissima e pulsa sangue e sudore in ogni angolo del mondo, evidentemente non ha sconfitto del tutto i pregiudizi omofobi e bacchettoni, se è vero come è vero che Zanzibar, dove nacque nel 1946, non ha mai voluto celebrarlo in alcun modo, né nel 2006 per i suoi 60 anni, né quest’anno per i 65, tantomeno oggi per il ventennale dalla morte. Il motivo, per qualche estremista fanatico e islamista, è presto detto: Mercury non è un vero e proprio zanzibariano e soprattutto non ha vissuto in maniera conforme alla Shari’a in quanto omosessuale. Punto e a capo. E il silenzio più totale è caduto sul figlio più glorioso di quell’isola bella e povera.
Ma il mondo non si ferma a Zanzibar, per fortuna, e oggi ogni angolo del globo ricorda l’uomo, l’artista, il performer e anche l’omosessuale, persino il malato di Aids. Perché Freddie Mercury è un simbolo di musica ma anche di impegno sociale e di informazione su una malattia che farà meno paura di allora, senza dubbio, ma che ancora oggi miete milioni di vittime nei paesi più poveri del pianeta, dove le cure costano un occhio della testa e le case farmaceutiche mondiali preferiscono lucrare, piuttosto che aiutare. E’ quello che succede anche nella sua Zanzibar, sia chiaro. In quell’isola che lo ha disconosciuto come figlio senza capire che il suo esempio poteva essere fondamentale per informare, prevenire e curare.