Il mafioso reagì male a una punizione: per i magistrati può bastare per la richiesta di rinvio a giudizio. Le indagini sono state ultimate, ora l'udienza
Tanto è bastato perché la procura emiliana aprisse un’inchiesta giunta a conclusione con l’invio dell’avviso di fine indagine al boss nato a Corleone, in provincia di Palermo, nel 1933 e arrestato nel 2006 dopo una latitanza durata 43 anni (era iniziata nel 1963 e nel frattempo il capo mafia siciliano era stato condannato in contumacia a 3 ergastoli mentre altri procedimenti penali a suo carico erano in corso).
Provenzano, dopo l’arresto, è stato rinchiuso in diversi istituti di pena. Prima Terni, poi Novara e infine, lo scorso marzo, Parma grazie all’intervento del suo avvocato di fiducia, Rosalba Di Gregorio. Tutte prigioni attrezzate per la detenzione di persone a cui viene applicato il 41 bis, il regime di carcere duro, senza contatti con l’esterno nemmeno attraverso televisione e radio. Neanche una recidiva di un tumore alla vescica, confermata nella primavera 2011 e a cui vanno ad aggiungersi le conseguenze di un’ischemia, era riuscita a rendere più morbido il soggiorno del boss nella sua cella emiliana.
Poi è giunta una punizione, comminata dal direttore del carcere per un comportamento che era stato ritenuto poco ortodosso. Nei documenti dei magistrati non viene specificata più nel dettaglio la ragione per cui l’ergastolano avrebbe subito il provvedimento disciplinare, ma è stata riportata l’espressione con cui ha commentato quell’azione.
Secondo la procura di Parma, si tratta di una “frase dal significato inequivocabilmente intimidatorio in considerazione della sua elevata pericolosità sociale desumibile dal comprovato inserimento in contesti di criminalità organizzata e dai gravissimi reati a lui ascritti. [Dunque ha] minacciato un corpo amministrativo o comunque una pubblica autorità costituita in collegio per impedirne o turbarne l’attività”.
Di diverso avviso la difesa di Provenzano, che già in passato aveva sottolineato i sentimenti religiosi del mafioso, il cui nome compare anche nelle carte relative al periodo stragista di cosa nostra del 1992 e del 1993. Sentimenti manifestati sia nel corso della sua latitanza, come attesterebbero i pizzini che scambiava con l’esterno dal suo covo, che il periodo di detenzione. Ma per la procura emiliana non sarebbero sufficienti a giustificare in alcun modo il commento indirizzato al direttore del carcere.
Un carcere che, stando a una recente nota Gianluca Galiberti, segretario regionale della Fns Cisl (Federazione nazionale sicurezza), già sarebbe attraverso da gravi problemi. Nel testo, indirizzato alla Caritas, si chiede infatti “di rifornire Parma di materiale igienico, che malgrado gli encomiabili sforzi del direttore […] è nell’oggettiva impossibilità di acquistare, dati i costanti e massicci tagli operati sul relativo capitolo di spesa (per intenderci, lo stesso utilizzato per l’acquisto di carta, toner e cancelleria varia). Si pensi che da circa due mesi manca il prodotto per lavare i pavimenti, la candeggina, la carta igienica e persino il sapone per le mani”.
Inoltre lo scorso aprile un altro detenuto, un trentanovenne in regime di 41 bis, aveva aggredito direttore, il vice comandante della polizia penitenziaria e 6 agenti. Accusato di intemperanze e violenze, l’episodio provocato dal carcerato aveva riportato l’attenzione sul problema del sovraffollamento, le condizioni di vita disagevoli, i suicidi sia tra i detenuti che tra i pubblici ufficiali che vi operano e le violenze si sono verificate.