Dieci brani, quasi un concept album, per quanto siano fitti i rimandi tra l’uno e l’altro pezzo, per quanto siano omogenei suono e parole come da tempo non ascoltavamo in Fossati. Forse da quel Lindbergh (1992) che aveva partorito La canzone popolare diventata poi inno dell’Ulivo prodiano.
Apre La decadenza, dove sono proprio le “parole” e la “speranza” a non avere più “chanches”. Un testamento etico in piena “bassa marea” dove Fossati indica la sua personale strada da percorrere per uscire dal guado: “mi guardo a sinistra, poi guardo verso destra, e tutto quel che ho da vedere è una frontiera da attraversare con te”.
Il segno del doppio, della coppia, dell’amore condiviso in due, traccia la linea centrale delle liriche di Laura e l’avvenire, Un Natale borghese e Tutto questo futuro. Tre tracce di assoluta ispirazione fossatiana, a cui si aggiunge un vero capolavoro dell’oramai quarantennale produzione del cantante genovese: Nella terra del vento, memorabile canto del cigno per uno degli ultimi cantautori deciso al ritiro dalla produzione discografica.
“Quello da cui io mi sto staccando è il mestiere della discografia, però nessun artista può staccarsi dall’amore per la musica”, ha spiegato Fossati poche settimane fa, “Continuerò a studiare, continuerò a suonare, continuerò ad ascoltare la musica degli altri. Continuerò a fare tutto questo, perché ero monomaniaco da ragazzo e lo sono ancora: non c’è niente che mi attiri più di un negozio di strumenti musicali anche adesso. Non abbandono le scene per stanchezza, ma per curiosità”.
Eppure questa decadenza, quest’aria da smobilitazione di un impero e di un’epoca culturale, di un secolo che si chiude portandosi via con sé le vere radici del rock e del pop, c’è e si percepisce in modo evidente proprio dall’ultimo album: “Credo che viviamo in un’epoca di un’accelerazione tale da non poterla più sopportare. Se perdiamo la testa, se siamo testimoni di questa decadenza è perché stiamo andando a una velocità che la nostra mente e persino il nostro fisico non possono più sostenere. La strumentalizzazione del corpo femminile e la sua mercificazione sono dati terribili, ma esiste anche una mercificazione degli uomini, degli individui in generale, che non è più tollerabile”.
Per Fossati è tempo dell’ultimo tour. Martedì scorso al Regio di Parma, stasera a Bologna al Teatro Manzoni, le due tappe emiliano romagnole prima del buen ritiro. Forse in quello scorcio di Grecia, foto reale che Fossati ha fatto stampare nella copertina di Decadancing, quasi fosse un monito alla fuga modello Salvatores: “In questo clima da tardo impero se la lingua che parliamo è in decadenza, se politica e morale sono già decadute, il lavoro manca e la cultura – la musica in particolare – ricopia se stessa fino allo sfinimento, i ragazzi guardano oltre le frontiere dell’Italia con speranza, e io non farei niente per trattenerli”.
Sul palco molte canzoni che hanno reso celebre Fossati, da Cara democrazia a Una notte in Italia, da L’orologio americano a Settembre, e una banda di tutto rispetto: Pietro Cantarelli (pianoforte, tastiere, Hammond, chitarre elettriche, fisarmonica e voce), Claudio Fossati (batteria e percussioni), Riccardo Galardini (chitarre acustiche, nylon, elettriche, mandola), Fabrizio Barale (chitarre elettriche e acustiche, voce), Max Gelsi (basso elettrico e acustico) e Martina Marchiori (violoncello, fisarmonica, organetto, tastiere, percussioni).
Per info e biglietti: www.ticketone.it, www.fepgroup.it