«Dai c…!». Questo articolo non può iniziare diversamente. L’espressione ripetuta e reiterata come un mantra nel film I soliti idioti ha tanto destato diversi moralisti. Che hanno vergato: è volgare, puro e gratuito. Del resto la volgarità è ovunque intorno a noi. Non occorre esser un misantropo del calibro di Thomas Bernhard per constatare il quotidiano, inevitabile e persistente soffocamento nell’imbecillità che l’amara realtà ci dona.
Eppure ci sono soglie che man mano scompaiono, si assottigliano in un limbo dove tutto diventa sfumato. È quel limbo nel quale non sappiamo più davvero cosa sia o meno la volgarità. Di solito: il supposto osceno, la blasfemia. E il turpiloquio. Banalmente, la parolaccia.
Ma è condizione necessaria e sufficiente per la volgarità? Insomma, dicono i moralisti, il “parlar sporco” corrompe i giovani. E sia: assumiamolo come criterio. Facciamo una scelta educativa e imponiamo ai nostri adolescenti un linguaggio pulito, assente di vocaboli sconci e scurrili. Ma se lo facessimo allora saremmo costretti a vietare loro anche gran parte dei nostri classici.
Già: da Omero in poi i grandi della letteratura non hanno disdegnato il ricorso all’epiteto forte. Anzi, sembrerebbe che alcuni si siano proprio divertiti a condire qua e là le loro opere con trivialità, sconcezze e un po’ di dissacrazione linguistica. Persino i greci amavano ironizzare sulla società del tempo e sui vizi dei potenti con un linguaggio colorito. Si prendano Archiloco, Eschilo o Sofocle. O il grande Aristofane, che nella commedia Gli Acarnesi fra molti passaggi coloriti ci dice: «Tu che al culo focoso il pelo radi, tanta barba, o scimmiotto, al mento avendo, cammuffato da eunuco, ti presenti?».
I Romani non erano certo da meno. Persino Cicerone non è estraneo a certe espressioni forti. Ma più di tutti il poeta e retore Giovenale, che intorno al 100 d.C. ci ha regalato con le sue Satire veri esempi di politicamente scorretto: «O ancora quando t’impone di farti in là gente che si guadagna i testamenti ogni notte, gente che la via più sicura oggi a far fortuna, la vulva d’una vecchia danarosa, porta alle stelle». E anche: «Non fidarti dell’apparenza: le strade sono piene di viziosi in cattedra. Condanni l’immoralità tu, proprio tu, che degli efebi di Socrate sei il buco più noto? Il corpo rozzo e le braccia irte di setole prometterebbero un animo fiero, ma dal tuo culo depilato, con un ghigno, il medico taglia escrescenze grosse come fichi». E così via.
Intorno al 1300 è la volta di Dante. Seguito poi da Boccaccio: «Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d’asino, che venutici di contado e usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con la penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per moglie» (Decameron).
Ma fermiamoci a Dante, il “sommo”, il poeta per eccellenza che si studia nelle scuole. Prendiamo la sua Divina commedia. Il canto XVII dell’Inferno, dove di parla della «sozza e scapigliata» Taide, «puttana… che là si graffia con le unghie merdose», e del suo vicino Alessio Inteminei: «E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco». Sempre nell’Inferno, il famoso verso: «Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta». Qualche libro dopo: «Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’ io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia».
Del resto, il “mangiare merda” è un simbolo ricorrente di ingordigia e avidità presente in Aristofane, Plauto, Rabelais, Swift, Sterne, fino all’ossessione “escrementizia” del buon Carlo Emilio Gadda. Il tema è sempre piaciuto assai, tanto che nel Seicento il letterato Tommaso Stigliani scrive Merdeide, un poema antispagnolo che recava come sottotitolo: Stanze in lode delli stronzi della Real Villa di Madrid. Piuttosto esplicito, sin dall’incipit: «D’una Villa Real i sporchi umori / Gran desio di catar m’ingombra il petto, / E come in vece di purgati odori / V’han li stronzi, e la merda albergo e letto». E finisce con altrettanta chiarezza: «E tu Villa real, fregio, e decoro / De l’Ibero terren, Donna del Mondo, / Già che rinchiudi in te si bel tesoro, / Tù non cadrai nel cieco oblio nel fondo / Muta nome per Dio, che più sonoro / Sarà il tuo vanto fetido & immondo, / E dì, pe i stronzi si famosi, e belli / Merdid ogn’un, no più Madrid, m’appelli» (citiamo dall’edizione canonica che comprende anche, fra altri, lo scritto Mentre Fillide vien baciata da Filleno, questa per dolcezze si lasciò scappare una Correggia).
Che dire di Pietro Aretino? A leggerlo vi è un profluvio di “cazzo” e “fica”. Anche Dante aveva usato quest’ultimo termine (sempre nell’Inferno: «Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, /gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”), ma la sua forma più diffusa la dobbiamo all’Aretino, che la usa per la prima volta nella commedia Il Marescalco del 1533. A lui piaceva molto l’oggetto stesso ed è stato l’antesignano del Benigni d’antan: da Ampolla a Bersaglio, Faccenda e Fantasia, Buca e Scodellino, Grattugia e Vergigno, si contano quasi una trentina di metafore per indicare l’organo sessuale femminile. Poi sdoganato, insieme al corrispettivo maschile, nei Sonetti lussuriosi: «Fottiamci, anima mia, fottiamci presto / perché tutti per fotter nati siamo; / e se tu il cazzo adori, io la potta amo, / e saria il mondo un cazzo senza questo». Ancora: «Mettimi un dito in cul, caro vecchione / e spinge il cazzo dentro a poco a poco; / alza ben questa gamba a far buon gioco, / poi mena senza far reputazione». E non abbiam scelto nemmeno i passi peggiori.
Quasi al pari del poeta Giorgio Baffo, che scandalizzò la Venezia del Settecento con una continua ode alla “mona”, che tanto bene fa: «Notte e zorno ti fa miracoloni, / che l’acqua, che trà su la to fontana, / dà vita al cazzo, e spirito ai cogioni». Degno antesignano del miglior Belli, con La madre de le sante: «Chi vò chiede la monna a Caterina, Pe ffasse intenne da la gente dotta Je toccherebbe a dì: vurva, vaccina, E dà giù co la cunna e co la potta. Ma noantri fijacci de miggnotta Dimo cella, patacca, passerina, Fessa, spacco, fissura, bucia, grotta, Fregna, fica, ciavatta, chitarrina…».
Si potrebbe continuare con Shakespeare, de Sade, Hugo e Baudelaire fino a Céline, Artaud e Prévert (senza considerare i nostri italiani novecenteschi). Forse aveva ragione nell’Ottocento Carlo Porta, che diceva che qualsiasi linguaggio può esser bello o brutto a seconda di chi lo usa. Insomma, volgari non sono mai le parole stesse. Possono esserlo, ma dipende dalla maestria, l’intelligenza e la cultura di chi le usa.
Aveva proprio ragione Cesare Pavese quando scriveva che «nulla è volgare di per sé, ma siamo noi che facciamo volgarità secondo che parliamo o pensiamo».