Vengono dal Ghana, dal Mali, Sudan, Nigeria, Etiopia, Somalia e Pachistan.
Tutti fuggiti “a forza” dalla Libia. Sono uomini e donne (c’è anche una bimba) ospitati (ma, sarebbe meglio dire, finalmente accolti) in una struttura Ligure della Croce Rossa. Qui i militi e i volontari pensano a tutto e non fanno mancare nulla: c’è la scuola di italiano, buon cibo, vestiti, interpreti ed empatia.
Loro, i profughi, sono sbarcati pochi mesi fa a Lampedusa e ora aspettano di essere convocati dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento dello Status di Rifugiato.
Il fu Ministro Maroni aveva dichiarato da subito che solo una piccola percentuale dei profughi arrivati in questi mesi sulle nostre coste avrebbe avuto diritto allo status di rifugiato. Si stima che siano arrivati in Italia circa 60.000 profughi dall’inizio dell’anno e di certo la politica italiana non è orientata a dare a tutti loro un’autorizzazione a restare nel nostro Paese. Con numeri così elevati per i nostri standard (ma non già per quelli dellla Germania o della Francia) non sarà facile per nessuno per quanto neutrale ed esperto vedere e riconoscere in ogni singolo profugo le ragioni della sua fuga dal Paese di origine ed il diritto ad un approdo e ad una permanenza sicura in Italia. Nei grandi numeri è facile perdere di vista i diritti e lo staus giuridico dei singoli. Migliore fortuna avrebbero potuto avere quegli stessi profughi se fossero arrivati in Italia “spalmati” in un periodo di tempo più lungo, in tre anni piuttosto che in 9 mesi e in una situazione economica-politica. Ma i profughi raramente hanno fortuna.
E così, riuscire a “superare” l’intervista in Commissione non sarà cosa semplice.
Non lo è mai: raccontare a un gruppo di estranei in una manciata di minuti tutto il peggio che la vita ti ha riservato, le torture, la prigionia, gli abusi, i lutti, le umiliazioni, il terrore, la vergogna. E magari mostrare cicatrici che vorresti cancellare e ricordi che vorresti rimuovere.
Provo a spiegare loro che proprio perché questa intervista è così difficile sarebbe utile iniziare a prepararsi per tempo: abituarsi a raccontare l’indicibile e a ricordare l’irripetibile.
Uno di loro si fa coraggio e inizia a parlare. Mette in fila in ordine sparso pezzi di vita, orrori, fughe e paure.
Poi si ferma, come bloccato. Tentiamo di dargli coraggio, sembra una terapia di gruppo per profughi.
Gli mostro una mia cicatrice e gli spiego che so quanto sia imbarazzante e doloroso esporre le proprie sofferenze a degli sconosciuti.
Lui mi risponde che il problema non è raccontare ma fare capire quello che prova. Mi dice proprio così: “io posso anche dire tutto quello che mi è successo ma loro non capiranno quello che sento”.
Già…
Gli spiego che “loro” sono esperti che ascoltano ogni giorno storie atroci di profughi e che hanno tutti gli strumenti per capire (e spero anche per “sentire”) quello che lui dice e sente.
Lo incoraggio a continuare a raccontare perché è davvero importante prepararsi per questo incontro con la Commissione, imparando a vincere ogni pudore, perché saranno “loro”, i membri della Commissione, a decidere se potrà avere protezione in Italia o se dovrà essere rimandato da dove era scappato.
L’esito della sua intervista determinerà il suo futuro.
Lui scuote la testa e mi gela: “il futuro l’ho già perso“.
E’ poco più che un ragazzo, parla un inglese perfetto e ha una bellissima moglie seduta al suo fianco. E’ scappato anni fa dalla Nigeria per salvarsi da persecuzioni religiose e si è rifugiato in Libia. Lì ha subito la detenzione e le discriminazioni che il regime di Gheddafi era solito infliggere ai profughi neri. Poi è scoppiata la guerra e ci si sono messi pure i ribelli a perseguitarlo credendolo un mercenario al soldo di Gheddafi. E intanto dal cielo cadevano bombe.
Non restava che la fuga forzata con i militi di Gheddafi che lo spingono sulle barche non senza averlo prima derubato di tutto quel poco che ancora aveva. Anche il futuro. Ma almeno questo sarebbe nostro dovere restituirglielo.