Scott Brown contro Elizabeth Warren. L’avvocato contro la professoressa di Harvard. Wall Street contro chi vuole regolare Wall Street. Ci sono tanti modi per descrivere il duello per il seggio senatoriale del Massachusetts, quello dominato per 47 anni dal democratico Ted Kennedy e passato alla sua morte, nel 2009, al repubblicano Scott Brown. E’ certo però che il duello Brown/Warren incarna al meglio il cuore della campagna elettorale 2012: inquietudine economica, richiesta di maggiore giustizia, rivolta contro i grandi istituti finanziari.
Il 6 novembre 2012 gli americani non voteranno soltanto per il presidente degli Stati Uniti. In palio ci sono anche 33 dei 100 seggi del Senato, e i 435 seggi della Camera. Di tutte le sfide elettorali, quella tra Scott e la Warren è da subito apparsa la più significativa. “Per la finanza americana, è vitale eleggere Scott Brown”, ci dice un trader (che preferisce restare anonimo), incontrato a un conservative meetup in un bar di New York City. “Elizabeth è la persona giusta al momento giusto. Non posso pensare a un candidato migliore in tutti gli Stati Uniti”, spiega Noel Davidson, una studentessa di Boston, militante della campagna della Warren.
I toni estremi si spiegano del resto con l’intreccio di interessi concreti e immagini simboliche che sta dietro lo scontro. La Warren, ex-professoressa di Harvard, leader nella difesa degli interessi dei consumatori (qualcuno la ricorderà nel film di Michael Moore, Capitalismo. Una storia d’amore), è la persona che più di ogni altra si è battuta a favore dell’agenzia per la protezione del consumatore finanziario.
Recentemente, durante un comizio, ha rivendicato il merito di aver forgiato gli strumenti politici e intellettuali propizi alla nascita di “Occupy Wall Street” (poi, di fronte alle accuse repubblicane, ha attenuato i toni, spiegando che l’unico punto di contatto tra lei e i manifestanti è la volontà di combattere gli abusi finanziari). La Warren è stata comunque in questi anni la figura più eminente, a livello politico e intellettuale, nella richiesta di una regolamentazione del grande capitale finanziario (e per questo la rivista Time l’ha inserita nella lista delle 100 persone più influenti al mondo”).
Ecco perché la notizia della candidatura della professoressa di Harvard – per il seggio ora occupato da Scott Brown – ha scatenato i timori dell’industria finanziaria. L’opera di salvataggio del “soldato Brown” è iniziata immediatamente. Delle 20 società in cima alla lista dei sostenitori di Brown, almeno 10 appartengono al mondo della finanza. Tra queste ci sono Morgan Stanley, Bain Capital, Fidelity Investments, oltre a donatori privati che “pesano” a Wall Street come il presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, e grandi manager dell’industria degli hedge fund come John Paulson e Kenneth Griffin. Il flusso di dollari, da Wall Street alle casse di Brown, ha fatto del senatore repubblicano il re della raccolta di finanziamenti: un milione di dollari in poco più di un anno.
A ben guardare, si tratta di un esito inaspettato per il senatore Brown, 52 anni, avvocato con un passato da modello (nel 1982, la rivista Cosmopolitan lo definì “l’uomo più sexy d’America”), innalzato al successo politico dalla rabbia popolare e populistica del Tea Party, il cui appoggio fu fondamentale, nel 2009, nella conquista del seggio dei Kennedy. In questi due anni Brown è stato un senatore centrista, votando spesso insieme ai democratici e dimostrando anzi una notevole indipendenza di giudizio e di voto proprio nei confronti di Wall Street. Suo è stato il 60esimo voto che ha permesso il passaggio della riforma finanziaria di Obama. E suo è stato l’appoggio a una misura che limita le commissioni bancarie sulle transazioni commerciali.
La discesa in campo di Elizabeth Warren ha però fatto dimenticare i dissapori e ha condotto a un rapidissimo riposizionamento dell’industria finanziaria dietro Brown. La dichiarazione d’intenti della Warren è stata del resto, sin dall’inizio, molto chiara. Affermando che “nessuno, in America, si arricchisce da solo”, l’ex-professoressa di Harvard ha fatto partire una vera e propria battaglia per la regolamentazione del grande capitale e a favore degli interessi della classe media. I toni accesi della sua retorica politica le hanno conquistato l’appoggio della base liberal del partito democratico, dei giovani, del sindacato. Abbiamo assistito a un comizio della Warren, in una palestra di Boston, a metà novembre, e l’entusiasmo dei sostenitori, l’assoluta certezza della vittoria (“Wonder Woman vorrebbe essere Elizabeth Warren”, era scritto su un cartello sventolato da una ragazza) facevano ricordare i giorni e le speranze della campagna elettorale di Obama nel 2008.
Da giugno a settembre 2011, la Warren ha raccolto 3 milioni di dollari (il 70% di questi viene da fuori il Massachusetts, il 96% è fatto di donazioni inferiori ai 100 dollari, a riprova del carattere nazionale e popolare della sua campagna). Lo stile di questa signora, una 62enne nonna di 3 bambini, spesso sorridente, pochissimo diplomatica, è quello che la base progressista americana attendeva da tempo. “Elizabeth arriva al momento giusto – spiega Jim McGovern, un democratico del Massachusetts – ci sono molti progressisti che si sentono traditi da Obama. La Warren riempie un vuoto. Dà modo alla gente di combattere per quello in cui crede”. Lo ha capito Scott Brown. Lo hanno capito i repubblicani e Wall Street. Che due anni fa festeggiavano per la conquista del seggio storico degli odiati Kennedy. E che oggi annaspano, per cercare di conservarlo.