In Europa quasi tutte le donne sono vittime di violenza nel corso della loro vita. Una su cinque è vittima di abusi domestici. Una su dieci viene violentata o forzata a un atto sessuale. Secondo l’European women lobby (Ewl), network di associazioni che proteggono le donne in Europa, proprio quello rosa è il diritto più calpestato all’interno dei confini della civilizzata Europa. Parole che colpiscono e fanno male, specie se tradotte in cifre. “Sette donne ogni giorno muoiono per mano dei loro attuali o ex partner”, afferma Brigitte Triems, presidente Ewl. “Il 39% delle donne in Turchia sono vittima di violenze domestiche”, aggiunge Ayse Tekagac di Roj Women. “60 milioni di ragazze sono aggredite sessualmente sulla strada per andare a scuole ogni anno”, riferisce Gabi Heller di Wagggs.
Secondo le associazioni lo strumento più efficace per contrastare questo terribile fenomeno si chiama “National action plan”, acronimo Nap, in una parola “programmazione”. Il Consiglio d’Europa lo definisce come una “strategia coerente e onnicomprensiva di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne”. Insomma un insieme di leggi, misure e iniziative che identificano le principali situazioni di rischio e i reati, mettono in campo un sistema di monitoraggio e prevedono controlli e un intervento tempestivo nelle situazioni critiche. Sembrerà infatti una banalità, ma già una chiara e univoca definizione di cosa costituisce “violenza nei confronti delle donne” potrebbe fare molto. Secondo Dagmar Schumacher, di UN Women, nei Paesi privi di una chiara legislazione il 50 per cento delle donne crede che sia giusto essere picchiata dal proprio marito, una percentuale che scende al 25% nei Paesi che invece una normativa ce l’hanno.
Il problema è che, stando all’ultimo rapporto Ewl dell’agosto 2011, soltanto un Paese in Europa (sui 47 che rientrano nel Consiglio d’Europa) si è dotato di un Nap: la Svezia. In concreto si tratta di una legislazione che combatte ogni tipo di violenza, da quelle più conosciute, come il traffico umano e lo sfruttamento della prostituzione, a quelle sommerse, come la violenza domestica o tra coppie di donne omosessuali. Va ricordato che la Svezia è l’unico Paese europeo dove la legge ha messo nero su bianco che la prostituzione è “una forma di violenza nei confronti delle donne e un ostacolo al raggiungimento dell’equità di genere”. Altri dieci Paesi (Francia, Finlandia, Germania, Grecia, Islanda, Lituania, Lussemburgo, Serbia, Spagna e Turchia) hanno iniziato a contrastare alcune forme di violenza, dimostrando così almeno la volontà politica di fare qualcosa. Purtroppo, stando al rapporto, la maggior parte dei Paesi hanno adottato politiche di tutela definite “gender blind” ovvero rivolte solo ai macro fenomeni di violenza, come lo sfruttamento della prostituzione, lasciando totalmente scoperte le altre forme di violenza, specie quelle meno evidenti. In questo blocco spicca l’Italia, in compagnia di paesi come Romania e Ucraina.
Il paradosso è che mentre l’Unione europea ha aumentato i suoi sforzi verso l’esterno per contrastare la violenza nei confronti delle donne e promuovere comportamenti virtuosi nei Paesi più a rischio, al suo interno manca una legislazione moderna e onnicomprensiva in tal senso. “Gli strumenti legislativi nella politica interna ed esterna sono completamente differenti”, conferma Katarina Leinonen del Servizio europeo di azione esterna (EEAS).
E la crisi economica di certo non giova. Secondo uno studio 2010 di Ewl e Oxfam International, la recessione economica ha creato le condizioni ideali per aumentare i casi di violenza domestica, lo sfruttamento della prostituzione e gli stupri. “Parallelamente a un aumento delle violenze, le misure di austerità messe in atto dai governi hanno colpito al ventre i servizi di assistenza e prevenzione lasciando le donne più vulnerabili che mai”, ha affermato Cécile Gréboval, segretario generale EWL, in una recente audizione al Parlamento europeo. Ad esempio, a livello Ue, nella sua proposta di bilancio comunitario generale per il dopo 2014, la Commissione europea non prevede di continuare a finanziare il progetto di tutela femminile Daphne, ovviamente per ragioni di budget.
Peccato che in quest’ottica, l’attribuzione quest’anno per la prima volta nella storia del premio Nobel per la pace a tre donne (Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee in Liberia e Tawakul Karman in Yemen) non ha aiutato.