Le intercettazioni telefoniche? Invadono la vita privata dei cittadini e impigriscono i magistrati. I collaboratori di giustizia? Sono un “male” (anche se “un male necessario”). Le manette agli evasori? Sono un “uso distorto dello strumento penale”. Le condanne per gli infortuni sul lavoro? Eccessive quando l’incidente è dovuto “a scelte imprevedibili dell’infortunato”. I magistrati? Inclini alla “spettacolarizzazione del processo”. È questo il Severino-pensiero.
Le esternazioni del neoministro della Giustizia Paola Severino, nei suoi interventi, nelle sue interviste e nei suoi editoriali sul Messaggero, negli ultimi anni riprendono e sviluppano tutti i luoghi comuni sulla giustizia del berlusconismo di destra e di sinistra. Le intercettazioni telefoniche (Il Messaggero, 6 giugno 2008) hanno “rilevantissimo costo, pari al 33 per cento delle spese di giustizia” (falso). Inducono inoltre nei magistrati una “perdita di capacità nell’utilizzo di tecniche investigative tradizionali”. Come dire ai medici: smettete di usare la tac e la risonanza magnetica, che vi fanno perdere la capacità di auscultare i pazienti con lo stetoscopio. E poi via con tutte le banalità sulle intercettazioni ripetute mille volte: invadono la vita privata, travolgono “qualunque forma di tutela della riservatezza”, vengono pubblicate “infrangendo il segreto investigativo”, fanno finire sui giornali “conversazioni del tutto prive di rilevanza penale”, nella “ricerca irrefrenabile di aspetti solo scandalistici in vicende giudiziarie”.
I collaboratori di giustizia per Paola Severino sono un “male”, benché “necessario”, e hanno effetti “simili a quelli della chemioterapia nel corpo di un ammalato di tumore, e cioè a volte peggiori delle manifestazioni della malattia” (Il Messaggero, 12 marzo 2000). Così la collaborazione di Giovanni Brusca ha avuto pessimi effetti: “l’imbarbarimento del sistema, lo svuotamento graduale della funzione investigativa” e, per i magistrati, “l’adagiamento nel comodo ruolo di collettore di confessioni mai disinteressate e a volte suggerite da scopi che nulla hanno a che vedere con la giustizia”. La collaborazione, del resto, “non può trasformarsi in un salvacondotto verso la libertà e tantomeno in una via di accesso a privilegi economici e personali assolutamente ingiustificati”. Urgono dunque riforme: “Non ci si può accontentare della semplice pluralità e concordanza” delle chiamate in correità. Sarebbe la fine delle collaborazioni di giustizia.
Il neoministro, avvocato di Francesco Gaetano Caltagirone e di sua figlia Azzurra, è anche editorialista sul giornale di Caltagirone, Il Messaggero. Così è capitato che commentasse sulle colonne del quotidiano le sentenze del suo editore, ottenute in processi in cui lo aveva difeso in aula. Sull’evasione fiscale, Severino scavalca anche il duo Berlusconi-Tremonti. Quando il ministro uscente dell’Economia, nel settembre scorso, prova a varare una norma che per un’evasione superiore ai tre milioni di euro tolga la possibilità di ottenere la condizionale (e dunque in caso di condanna manda l’evasore in carcere, con esecuzione immediata), lei insorge e dice, lapidaria: “È un uso distorto dello strumento penale” (Il Messaggero, 6 settembre 2011). A proposito degli incidenti sul lavoro chiede “più sicurezza, ma senza eccessi” (Sole 24 ore, 25 aprile 2009). No alla giurisprudenza che rende automatica e oggettiva l’identificazione tra infortunio sul lavoro e responsabilità penale di chi deve garantire la sicurezza del lavoratore. Sì invece a “dare garanzie a chi fa rispettare le regole, se l’incidente è dovuto a scelte imprevedibili dell’infortunato”. Così parlò Paola Severino, avvocato e professore. Ora è ministro della Repubblica.
Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2011