Di nuovo in piazza. E’ così che il popolo dell’acqua lotta. E’ così che lo fa ancora una volta, con una manifestazione a Roma. Un corteo da piazza della Repubblica alla Bocca della Verità, proprio lì dove le bandiere dell’acqua sventolavano in festa a giugno, forti di un risultato “storico”. Già, perché è vero che il referendum del 12 e del 13 giugno è stato vinto – stravinto –, dopo 15 anni in cui le consultazioni dal basso all’italiana non erano riuscite a raggiungere sistematicamente il quorum. E’ vero che 27 milioni di italiani hanno detto no alla privatizzazione dell’acqua. Ma è anche vero che, dicono i Comitati, la volontà popolare non solo non è stata rispettata, ma rischia di essere “cancellata”.
I movimenti per l’acqua si sentono “custodi” degli oltre 27 milioni di elettori ai referendum, e ritengono di esserlo anche per la giurisprudenza. In questi giorni piangono la scomparsa di Danielle Mitterand, “grande donna, attivista per l’acqua e per i diritti umani”, una signora “che apparteneva al mondo intero”. E’ anche nel suo nome che vogliono “far valere il mandato del popolo italiano, andando verso la ripubblicizzazione del servizio pubblico”.
“Si scrive acqua, si legge democrazia” è da sempre il motto di questo movimento. Ecco perché i comitati referendari, forti non solo del risultato di giugno ma anche di tutto quello che a quella vittoria ha portato (non ultimo aver raccolto un milione e 400mila firme per presentare i quesiti), solleveranno a giorni la questione del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato presso la Corte Costituzionale. Il governo – spiegano – ha approvato infatti norme contrarie all’esito referendario. Norme, secondo la tesi dei giuristi del Forum – in “contrasto costituzionale” con il voto popolare, potere dello Stato tanto quanto l’esecutivo e del quale i Comitati referendari sono rappresentanti.
Ma cosa sta succedendo? Il punto è che dalle parti del potere centrale, ma anche da quelle della politica locale, il post-referendum è stato un proliferare di provvedimenti “lontani” da quanto espresso dagli italiani. Prima di tutto la manovra estiva, a nemmeno un mese dalla ratifica del Capo dello Stato del risultato del referendum – e quindi dall’abrogazione della norma (l’art.23bis del decreto Ronchi) che obbligava a mettere a gara la gestione dei servizi pubblici locali. Il l3 agosto, nell’articolo 4 della manovra, è stata approvata quella che i comitati chiamano una “fotocopia del decreto Ronchi”. Una norma che ricalcherebbe “fedelmente” l’art.23bis, reinserendo la liberalizzazione dei servizi pubblici locali abrogata dal primo quesito del referendum. Unica accortezza, la specifica: “tranne per il servizio idrico”. “Come se gli italiani avessero votato solo per l’acqua”, dice Marco Bersani di Attac Italia. “Tra l’altro sappiamo che l’intenzione è quella di inserire anche il servizio idrico”. E poi. Nella legge di stabilità si rinforza il concetto, stabilendo che i sindaci che non metteranno a gara i servizi pubblici locali entro il 31 marzo 2012 potranno essere commissariati o destituiti.
LOMBARDIA
Questo a livello nazionale. Ma anche tra gli enti locali c’è un bel fermento. A partire dal caso di Cremona. Gli acquedotti della provincia lombarda, infatti, “rischiano”, nonostante il referendum, di andare in gestione a una società mista. La conferenza dei sindaci dell’Ato, l’autorità d’ambito, doveva decidere l’affidamento del servizio idrico a una società misto pubblico-privata (60% in mano al pubblico, 40% in mano ai privati) per poi passare alla gara ad evidenza pubblica. Per ora la mobilitazione dei comitati per l’acqua pubblica, con un presidio di 250 persone lo scorso 22 novembre mentre era in corso l’assemblea dei sindaci, ha bloccato l’iter. I sindaci hanno fatto mancare il numero legale, ma il “pericolo” resta. L’articolo 23bis del decreto Ronchi obbligava a privatizzare entro il 31 dicembre 2011: abrogata quella norma con il primo quesito referendario, si fa riferimento – secondo i dettami della Corte Costituzionale – alla disciplina comunitaria, che prevede tutte le forme di gestione possibili, privatizzazione inclusa (ecco perché i Comitati per l’acqua pubblica ce l’hanno anche con l’Unione europea, rea di ammettere e anche spingere le liberalizzazioni, compresa quella del servizio idrico). E il “pericolo” resta, a Cremona e dintorni, anche rispetto alle intenzioni dell’amministrazione comunale (con il sindaco Oreste Perri in quota An-Pdl) e di quella provinciale (con Massimiliano Salini, uomo di Roberto Formigoni). Perché – dicono – necessari e urgenti sono gli interventi su acquedotti, fogne e depuratori, tubature e pozzi a rischio inquinamento. La stima dell’Ato è di una spesa di 371 milioni di euro per i prossimi due decenni. I Comuni, si sa, non godono di buona salute economica e l’allarme lanciato da Cremona è che lasciare il servizio in mano pubblica – come l’esito referendario richiederebbe – porterebbe ad un aumento delle tariffe per ovviare alla carenza di risorse.
TORINO
E poi c’è Torino, con Piero Fassino sindaco. E con la sua delibera per la privatizzazione delle aziende dei rifiuti e dei trasporti pubblici locali ancora in capo al Comune. Eppure il Pd, alla fine – tra se, ma, forse, chissà, però, ma anche – sul carro dei vincitori del referendum ci era salito, appoggiandolo. Per il momento, all’ombra della Mole, l’acqua resta fuori dalla delibera fassiniana, ma il problema resta. Nel “fare finta che gli italiani abbiano votato solo per il servizio idrico e non per tutti i servizi pubblici locali” e perché neanche l’acqua sembra veramente salva, annoverando tra i suoi potenziali nemici (a Torino ma anche nel resto d’Italia) persino il partito di Nichi Vendola.
PUGLIA
Sel è accusato di comportamenti “ambigui” di fronte all’esito referendario. E Vendola è un “sorvegliato speciale”. Perché quella dell’acqua come bene comune è stata a lungo una battaglia della quale il buon Nichi si è fatto carico in Puglia. E di fronte alla quale oggi risulta in “colpevole ritardo”: da ‘ormai troppo tempo’ il Comitato pugliese Acqua bene comune invita il governatore “a rendere finalmente Legge regionale” il Ddl che trasforma l’Acquedotto pugliese da S.p.A. in “azienda di diritto pubblico”. E da ‘ormai troppo tempo’ la risposta che Vendola avrebbe dato ai Comitati (ovvero che “l’iter è in capo al consiglio regionale e il presidente ha poteri limitati”, raccontano) al popolo dell’acqua, pugliese ma non solo, non basta più.
FIRENZE
Buone notizie arrivano invece da Firenze, dove è stata approvata in Commissione Ambiente – con voto trasversale di Sel, Pd e Pdl – la mozione sull’adeguamento all’esito del referendum di giugno delle bollette di Publiacqua. L’atto impegna ora l’amministrazione a presentare nella prima assemblea utile dell’Ato la proposta di adeguare la tariffa del servizio idrico all’esito referendario, abrogando il 7% di remunerazione garantita del capitale investito.
SALERNO E NAPOLI
A Salerno, secondo i Comitati, non si privatizza formalmente, ma la costituzione di una holding multiservizi, in cui è stata inserita anche la gestione del servizio idrico, rappresenta per il referendari il “primo passo verso la privatizzazione”. La giunta di centrosinistra, con a capo Vincenzo De Luca, ha, infatti, ceduto la Salerno Sistemi Spa, controllata dal Comune, alla Salerno Energia Spa, azienda mista di diritto privato. Sempre dalla Campania, però, arriva l’altra buona notizia, con Napoli. Il capoluogo partenopeo rappresenta, ad oggi, l’unico caso reale in Italia di pubblicizzazione del servizio idrico. La giunta di Luigi De Magistris ha trasformato l’Arin Spa, società a totale capitale pubblico, in un’azienda speciale chiamata “Acqua bene comune Napoli”. E’ quello che chiede il popolo dell’acqua: un ente di diritto pubblico a cui parteciperanno cittadini e lavoratori del Servizio idrico integrato. “Napoli lo ha fatto in tre mesi”, dice Paolo Carsetti. “Non si capisce perché nessun altro in Italia lo abbia fatto”.
ROMA
E nella Capitale cosa succede? Nessuno – ricorda il Forum – ha mai smentito la notizia diffusa alcuni giorni fa in merito al presunto finanziamento (200mila euro con causale “relazioni pubbliche”) da parte di Acea – della quale il Campidoglio detiene il 51% delle azioni – al comitato del “no” al referendum durante la campagna referendaria. Comitato cui fa capo anche Franco Bassanini, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti, e il cui presidente è Walter Mazzitti. 200mila euro che sarebbero arrivati nelle casse del comitato per il no, movimentati – questa l’accusa – dall’amministratore delegato di Acea, Marco Staderini, e dal presidente della società Giancarlo Cremonesi, senza passare per il Cda.
di Angela Gennaro