La saletta della SS. Annunziata era piena, giovani e adulti, uomini e donne, tutti seduti l’uno accanto all’altro. Ciascuno di loro ha sottolineato con orgoglio i mesi, o gli anni che sono trascorsi da quando ha giocato l’ultima volta, generalmente vicino a casa, fingendo di essere al lavoro e sperperando così tanto denaro da rendere impossibile la vita quotidiana. E’ raro che alle riunioni siano ammessi esterni, quello celebrativo è stato un momento di condivisione ben diverso dall’usuale riservatezza, dall’anonimato tipico dell’incontro settimanale, il martedì sera.
Il gruppo venne fondato, in tutto il mondo, da Jim W, che prese come linea guida il programma di riabilitazione degli Alcolisti Anonimi, trovandolo sorprendentemente efficace e riadattabile alla differenza dell’oggetto-dipendenza. Ma a Bologna è una realtà importata anni fa da due giocatori compulsivi che, nella solitudine della malattia trovarono, nel gruppo di Milano prima e di Parma dopo, un’ancora di salvezza.
“Non credevo funzionasse così bene” ha spiegato uno dei fondatori “sono un ex tossicodipendente e quando riuscii a smettere di ricorrere alle droghe, per compensare il costante disagio che provavo verso me stesso e verso il prossimo, caddi vittima del gioco d’azzardo. All’inizio mi sentivo bene, avevo trovato una mia identità come giocatore in riabilitazione dalla droga. Ma come tutte le dipendenze, poi arrivò la mazzata”.
“Sono quattro anni e quattro mesi che non gioco”, ha raccontato orgoglioso M., l’altro fondatore bolognese, “a volte mi sono perso per strada e ho capito di voler condividere la mia esperienza con altri perché aiutare chi soffre di questa malattia è parte della riabilitazione”.
Quello proposto dai Giocatori Anonimi è un percorso di recupero che non si basa su consigli, non interferisce nella vita del prossimo, ma si sviluppa sulla condivisione delle esperienze e sui “dodici passi del recupero”, che partono dalla presa di coscienza. Avere accanto uno sponsor, qualcuno che ha vissuto la stessa situazione, offre il conforto necessario a quella solitudine dettata dalla menzogna, dall’abbruttimento generato da una pratica che porta all’alienazione.
Si comincia giocando un po’, qualche volta, poi si entra in una sorta di spirale, si salta il lavoro, si mente alla famiglia, si dà fondo ai risparmi di una vita. Finché il problema viene a galla e allora sopraggiunge la vergogna.
Anche Roberto si è presentato come giocatore compulsivo “per ricordarmi che sono impotente di fronte al gioco. Nel 2002 entrai nella stanza dei miracoli, la sede del gruppo bolognese, e incontrai i due ragazzi che la fondarono. Ero disperato, mi vergognavo, mi sentivo solo e soffrivo. E quando non si vuole bene a se stessi, poi, è impossibile amare gli altri, anche se hai una moglie e dei figli. Non mi importava più di loro. Avevo speso tutti i soldi della mia famiglia, finché un giorno la banca chiamò e tutto venne a galla”.
Per guarire bisogna capire di essere malati e il fatto che il gioco compulsivo non sia ancora riconosciuto come una patologia non aiuta. Allora interviene lo scambio di esperienze tra chi è pulito e chi, invece, ha appena iniziato il suo percorso. Piccoli passi, giorno per giorno. Un cammino che “ti salva la vita” e che dura per sempre, perché la compulsione non è curabile definitivamente.