Sono passati sedici giorni da quanto B. ha consegnato la dimissioni al Quirinale. E sono stati sedici giorni diversi dagli altri.

Certo, rimangono ancora tanti problemi. Lo spread cresce, l’euro rischia, i politici che ci hanno portato a questo sfacelo non si sono neanche sognati di fare autocritica, conflitti d’interesse vecchi e nuovi non fanno troppo sperare per il futuro.

Eppure, confesso, da quando B. non c’è più, la mia vita è cambiata. E in meglio.

Ossessione da giornalista del Fatto? Può essere. Ma ha scritto anche Massimo Gramellini su La Stampa: “Provate a contare quante volte avete pensato a lui in questi anni. Più che a vostra suocera”. É così infatti.

Nei diciassette anni che è stato al potere, se mettiamo per un attimo da parte leggi ad personam, dichiarazioni farneticanti (“Sconfiggeremo i cancro”), promesse mai mantenute (“Meno tasse per tutti”), insulti, guasconerie, contraddizioni, quello che più ha pesato sulla quotidianità di tutti, è stata la sua centralità totale in ogni aspetto della vita italiana. Il Truman Show di Berlusconi.

Silvio allo Camera, a Palazzo Chigi, a Piazza Duomo, sul predellino, nella tenda con Gheddafi, nella sala del Bunga Bunga, a Porta a Porta, a Radio anch’io, sul sito dei promotori della Libertà, allo stadio, in Parlamento, in Sardegna, nel centro Messegue, sulla Nave della Libertà, dal chirurgo, dal chirurgo plastico, dal dentista, dall’igienista dentale, da Don Verzè, a Onna. Ovunque e dappertutto. Sempre solo e soltanto lui.

Ora che non c’è più, invece, mi sembra di avere più tempo per tante altre cose. Si può perdere l’ultimo telegiornale: è improbabile che sia in cantiere una nuova legge che vuole sfasciare la giustizia. Si può perdere Ballarò: non c’è bisogno di conservarsi increduli verificando le menzogne di ministri indegni del loro ruolo. Si può abbassare il livello di allerta: non si corre per ora il rischio di una nuova legge bavaglio e successivo dovere di diffondere su Facebook l’appello alla mobilitazione.

In più, sui giornali, nei media, nei programmi tv, nei libri, sembrano riemergere temi fino ad oggi sempre in secondo piano ammazzati dalla macchina del berlusconismo. I miei occhi si riaccendono di nuovo interesse per le vicende di cronaca, i dibattiti sulla cultura, l’economia, le arti, la musica. Su Twitter si continua a parlare, a confrontarsi, ad informarsi, finalmente senza che la colonna delle hashtag sia per metà monopolizzata da B. e dai suoi epigoni.

Da quando non c’è più, insomma, mi sembra di avere più tempo. Per interessarmi di tutto ciò, bello e brutto, che succede in un Paese normale.

Ripeto, potrebbe essere che la mia fosse solo una ossessione da giornalista del Fatto. Ma forse è vero anche che la concentrazione del potere di Arcore era una tale anomalia che non c’era modo, anche volendo, di salvarsi.

Ora lui continua a sbraitare, ma il suo disco rotto suona al più come un latrato in lontananza. E i problemi rimangono. Ma è come se adesso ci fosse più tempo per tutti. E di lui, statene certi, non sento in nessun modo la mancanza.

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