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Calcio e depressione: il suicidio di Speed sintomo di un disagio diffuso tra i campioni

Dopo la morte dell'allenatore del Galles, cinque giocatori di prima fascia inglesi si sono rivolti a cliniche specialistiche. Tanti gli esempi di problemi psicologici anche in Serie A: da Pessotto a Vieri, fino ad arrivare al caso di Marco Bernacci. Il professor Antonio Sacco spiega le cause del disagio

L'allenatore del Galles morto suicida, Gary Speed

Il suicidio dell’allenatore del Galles Gary Speed, trovato morto nella sua abitazione nel Chesire domenica mattina, ha scoperchiato uno dei tabù meglio nascosti del mondo del calcio: il problema della depressione. Il suo agente e testimone di nozze, Hayden Evans, ha negato con forza che Gary fosse vittima del male oscuro, la polizia ha aperto un’inchiesta sulle cause del decesso, ma non è stato trovato nulla: Speed si è suicidato. E il suo gesto ha provocato ‘reazioni’. Secondo la stampa inglese, infatti, da domenica sarebbero ben cinque i giocatori di prima fascia del campionato inglese che, spinti dalla morte di Speed, hanno chiesto aiuto alla clinica specializzata nel recupero psicologico degli sportivi, gestita dall’ex capitano dell’Inghilterra, Tony Adams.

La depressione ha già attraversato i territori del calcio, dal suicidio dell’ex capitano della Roma Agostino di Bartolomei nel maggio 1994 – esattamente nel decimo anniversario della sconfitta nella finale di Coppa Campioni con il Liverpool – a quello avvenuto due anni fa del portiere dell’Hannover e della nazionale tedesca Robert Enke, che non si era mai ripreso dalla morte di una figlia. Del loro periodo buio hanno inoltre raccontato anche campioni famosi, come il capitano della nazionale italiana Gigi Buffon, l’inglese Adams, il tedesco Deisler, oltre agli ex azzurri Vieri e Pessotto.

Com’è possibile che atleti miliardari possano cadere nella depressione? Nel fornire la risposta, il professor Antonio Sacco, dell’Unità Operativa di psicologia dello sport (che opera in collaborazione con la facoltà di scienze motorie dell’Università di Torino), opera una netta distinzione. Tra coloro che “nel post carriera hanno difficoltà nel reinventarsi e nel sapere gestire i ritmi di una vita quotidiana totalmente diversi dai ritmi agonistici, scanditi dagli allenamenti e dall’evento della sfida”. E tra coloro che vengono colti dal male oscuro nel pieno della carriera dove “in aggiunta a problematiche da riscontrarsi nell’ambito lavorativo, quali ritmi forsennati, pressioni interne ed esterne (stampa e tifosi) per conseguire il risultato, sovraesposizione mediatica, si deve sempre tener conto della dimensione personale ed affettiva dell’uomo. Può essere che la persona non abbia le basi per sopportare queste pressioni o che, in un momento di debolezza, quello che prima sembrava routine divenga improvvisamente un fardello troppo pesante da portare”.

A quest’ultima categoria sembrerebbe appartenere Speed, che a 42 anni, dopo un’eccellente carriera ai massimi livelli nel campionato inglese, era stato nominato tecnico del Galles con cui aveva ottenuto ben cinque vittorie in dieci incontri, l’ultima il 4-1 sulla Norvegia due settimane fa. Inoltre Speed sabato aveva partecipato come opinionista ad una trasmissione della BBC e pare avesse già prenotato le vacanze di natale con la famiglia. “Non si può entrare nel merito del singolo caso – spiega il professor Sacco -. Di sicuro l’esperienza personale rimane fondamentale, nessun fattore esterno, per quanto influente e complesso, è sufficiente a spiegare la drammaticità di un gesto così definitivo come il suicidio”. Sono uomini anche loro, insomma, nonostante spesso li si veda attraverso le lenti della celebrità.

“Per fare questo tipo di carriera spesso si va via molto presto da casa, si vive nei convitti, lontano dalla famiglia e dagli amici – chiosa il professor Sacco –. Si fanno molte rinunce e tutto dipende da chi ti sta vicino in quei momenti e ti aiuta nella crescita”. Viene alla mente l’esempio di Marco Bernacci, centravanti che nell’estate del 2010 abbandona il Torino ed il calcio per depressione. Dopo un anno di assenza, Marco è tornato a giocare, da quest’estate veste la maglia del Modena. Diversamente è andata a Martin Bengtsson, che a diciassette anni lasciò la Svezia per andare all’Inter. Calcisticamente tutto bene, al Torneo di Viareggio fa faville, ma qualcosa dentro non funziona. Il perché lo spiega nella sua autobiografia Nell’Ombra di San Siro: “Sei solo, lontano da casa e hai già sperimentato soldi e successo: puoi perdere l’equilibrio. Le aspettative stritolano. La depressione è la prima minaccia per un giovane calciatore”. Un giorno Martin torna nel suo appartamento, mette su un disco di David Bowie e si taglia le vene. Lo salva la donna delle pulizie che lo trova per caso in un bagno di sangue. Da allora Martin non ha mai più giocato a calcio né guardato una partita.