Per valutare la serietà di un’associazione, di un’agenzia, di un partito politico o di un’intera classe dirigente non si può prescindere dalla valutazione del singolo. Ma allo stesso modo, se il singolo tradisce gli scopi che quell’associazione o partito si prefiggono non si può di certo “buttare alle ortiche” ciò che di buono (e in buona fede) i suoi appartenenti hanno prodotto. Talvolta può diventare assai complicato in tale circuito distinguere tra affari “puliti” e affarismo criminale.
E’ forse questo il caso di Frediano Manzi – presidente di «Sos racket e usura» – ad oggi sotto inchiesta sia a Milano che a Busto Arsizio per simulazione di reato, detenzione di materiale esplosivo e incendio: avrebbe finto di essere vittima di una serie di attentati per attirare l’attenzione su di sé e sulla propria associazione. Al di là dell’aspetto penale, senz’altro grave, sconcerta l’atteggiamento antietico. Sappiamo per certo come alcuni comportamenti non siano compatibili con lo spirito della lotta per la legalità, nonostante l’italico olfatto sia assuefatto ad un’ampia gamma di comportamenti (illegali e non), che generano una sensazione di rassegnata tolleranza.
La questione sollecita alcune osservazioni ulteriori. Ritengo che, nell’indagare quale ruolo e quale importanza debba avere il mondo del terzo settore in un contesto di società civile e nei rapporti con le istituzioni, sia giusto porre attenzione a due aspetti fondamentali: il tessuto sociale e quello politico, come collante tra questi due elementi, per ragioni differenti sfibrati e sfiancati da una crisi economica e morale che non accenna a passare.
La risposta alla crisi di una democrazia rappresentativa è di certo ripensare la democrazia in chiave partecipativa. Le associazioni diventano in questo contesto lo sfogo naturale di energie inespresse capaci di incidere in maniera significativa nei cambiamenti.
L’associazionismo si fa così portavoce di esigenze espresse dalla collettività in difesa dei diritti e delle libertà sancite dalla Costituzione, chiaramente come strumento integrativo (e non sostitutivo, come invece spesso accade) dell’azione delle autorità e delle istituzioni
Da un canto, veste i panni dell’attivismo di cittadinanza quale sistema di interazione in chiave antimafia, quale spirito di appartenenza a una rete organizzata. Dall’altro, al compimento di atti immorali sussegue un chiaro ridimensionamento dell’ottimismo di cui la vita associativa si nutre, e ingenera un collettivo sconforto nel pubblico pagante, ossia gli italiani. Chiaramente i successi ottenuti negli ultimi tempi contro la criminalità organizzata vanno in questa direzione, ma senza un’integrazione vera tra il lavoro della magistratura e della politica e quello delle associazioni, il rischio è di assistere a sterili operazioni di polizia.
L’antidoto alla mafia è la democrazia e i suoi strumenti sociali: non si dà autentica democrazia senza giustizia sociale. In un suo libro Amartya Sen si domandava: “La povertà genera violenza?”. Parafrasandone il titolo, potremmo proporre un nuovo quesito: la povertà (anche in senso sociale) genera mafia? La risposta è senz’altro affermativa.
L’auspicio è che eventi come questo diventino un serio motivo di riflessione politica ed autocritica per l’intero settore.