I lavoratori sono delusi: "Ora è il sindacato ad avere in mano la nostra protesta. Ma nelle trattative con l'azienda non si dimostra abbastanza agguerrito. Del resto, noi operai non possiamo continuare ad andare avanti da soli"
On veut just la titularisation Eni. Recita così lo slogan che accompagna le richieste degli operai dei cantieri Eni in Tunisia. In una parola, stabilità, che significa contratti a tempo indeterminato. Una soluzione che sembra un miraggio per gli operai del paese africano, che da nove mesi sono in mobilitazione e convocano scioperi uno dietro l’altro. Scioperi che, annunciati da settimane, sarebbero dovuti riprendere in questi giorni negli stabilimenti di Tazarka, El Borma e Oued Zar.
Ma in extremis i dirigenti della società italiana hanno raggiunto un accordo verbale con i rappresentanti sindacali dell’Ugtt (Union Générale Tunisienne du Travail), che hanno sospeso lo sciopero previsto. Alla base della decisione, gli esiti degli ultimi incontri tra le parti, ospitati presso la sede del Ministero dell’Energia e della Tecnologia e in particolare l’appuntamento di lunedì scorso, che è valso a scongiurare l’ennesima protesta contro la società petrolifera.
L’improvviso mutamento di programma annunciato dai sindacati ha lasciato perplessi i lavoratori. “Siamo difronte alle ennesime promesse della compagnia petrolifera – confessa un operaio della sala controlli dell’impianto di Tazarka, che chiede di non pubblicare le sue generalità – promesse che sono sempre rimaste inattuate”. Eni e i sindacati si sarebbero accordati sulla base di un’iniziale regolarizzazione a tempo indeterminato di 60/80 operai. Al momento infatti gli operai sottoscrivono contratti di anno di anno con le agenzie interinali Adecco e Manpower.
“Di fatto – continua l’operaio – lavoriamo per Eni con mansioni stabili. Ma essere integrati all’interno dell’azienda dicono sia impossibile. Ci sono situazioni di precarietà tra i vari stabilimenti che si prolungano da 14 anni. In questo momento, come soluzione intermedia, ci offrono l’assunzione in una società mista in cui operano Eni e lo stato tunisino”. Una prospettiva che non sembra destinata a concretizzarsi nell’immediato. “Ora è il sindacato ad avere in mano la nostra protesta. Ma nelle trattative con l’azienda non si dimostra abbastanza agguerrito. Del resto, noi operai non possiamo continuare ad andare avanti da soli”.
Mostra foto e verbali di assemblee che ripercorrono una vicenda cominciata il 14 gennaio 2011, data della fuga del dittatore Ben Ali. In quei giorni nel paese in rivolta era stato imposto il coprifuoco, ma in un volantino dei lavoratori si legge che “per evitare l’arresto della produzione e difendere la nostra società, abbiamo continuato a rispettare i nostri turni con calma e assiduità”. Al rifiuto della compagnia italiana di negoziare nuovi meccanismi di reclutamento e stipulare contratti a tempo indeterminato sono cominciati gli scioperi. Dal 31 ottobre al 2 novembre scorso la protesta più eclatante attivata con tre giorni di scioperi che hanno portato il blocco della produzione e hanno visto coinvolte le piattaforme petrolifere dei governatorati di Tataouine, Sfax, Tunisi e Nabeul.
“Dopo nove mesi di lotte, la stanchezza comincia a farsi sentire. Ma a casa ho una moglie e quattro figli e non posso pensare di vedermi rinnovato un futuro di anno in anno”. Il comportamento dell’azienda a suo dire, è totalmente irrazionale. “A fine ottobre, il blocco della produzione ha provocato alla compagnia una perdita di circa tre milioni di dollari. Con una minima parte di quei soldi, si potevano tranquillamente esaudire le richieste degli operai”. L’ordine dei sindacati di rinviare di dieci giorni lo sciopero degli operai, non ha comunque evitato momenti di protesta spontanea davanti ai cantieri petroliferi. Nella regione di Tataouine un gruppo di giovani disoccupati ha bloccato le strade nei pressi della sede del governatorato e impedito ai veicoli del trasporto pubblico di servire l’area petrolifera. I giovani accusano l’azienda di non aver mantenuto la promessa di assumere personale della zona e rivendicano il diritto a un lavoro che sembra non esistere. Una storia fin troppo comune nella Tunisia odierna, che riflette la fragilità della situazione economica e tratteggia l’affievolirsi delle speranze che la Rivoluzione aveva rimesso in circolo.
di Alessandro Doranti