L’ultima in ordine di tempo è stata la Banca d’Inghilterra. I suoi analisti, ha fatto sapere oggi il presidente dell’istituto centrale di Londra Sir Mervyn King, si starebbero preparando al default dell’euro. Il che, ovviamente, non significa che la fine della moneta unica sia un evento probabile. Ma ciò non toglie che la semplice contemplazione di una simile ipotesi, per quanto nella veste di “peggiore scenario possibile”, costituisca un motivo di grande preoccupazione. Il mondo, è inutile negarlo, guarda all’Europa con crescente inquietudine. Il timore è che la crisi non si arresti, anzi, vada definitivamente fuori controllo costringendo l’area euro a perdere pezzi per strada. Secondo Credit Suisse, ci sarebbe in tal senso una probabilità del 10%, una percentuale enorme per un evento del genere. Le conseguenze non sono ancora chiare – si è parlato di due monete distinte (un euro di serie A ed uno di B) oppure di una ricomparsa di lire, dracme e così via – ma una cosa è certa: in caso di disgregazione dell’eurozona l’impatto per il Continente e per il resto dell’economia mondiale sarebbe grave, disordinato, in definitiva: uno tsunami.

Eppure, dopo questa ennesima notizia negativa, i mercati non sembrano andare poi così male. Alle 15, Milano registra un +0,4% grazie anche alla performance degli osservati speciali di sempre Intesa (+2,36%) e UniCredit (+0,97%). Lo spread Btp/Bund, inoltre, è sceso durante la giornata sotto la soglia dei 450 punti base. Le altre piazze europee per il momento sono sotto, ma i danni sono molto contenuti. Ad impressionare, in ogni caso, è stato il trionfo registrato ieri: Milano e Parigi hanno guadagnato oltre 4 punti percentuali, Francoforte quasi cinque. Wall Street, inoltre, è stata protagonista di un fenomeno semplicemente clamoroso: nonostante avessero subito un taglio del rating da parte di S&P’s, le grandi banche Usa hanno registrato risalite eccezionali: Bank of America ha guadagnato il 7,3%, Citigroup l’8,9%, Morgan Stanley addirittura l’11,1%, Wells Fargo il 7,4 mentre Goldman Sachs ha chiuso a +7,9%.

Nel fornire una spiegazione all’apparente paradosso, gli analisti non hanno avuto dubbi. Tutto merito, si è detto, dell’intervento coordinato che ha ridotto di 50 punti base il costo degli swap in dollari fra la Fed e le altre banche centrali (Bce, Bank of England, Bank of Japan, Bank of Canada e Banca centrale svizzera) a partire da lunedì prossimo. In pratica, dalla prossima settimana ogni volta che un istituto centrale prenderà a prestito denaro dalla Fed, pagherà un interesse calcolato sul tasso dei depositi overnight più uno spread dello 0,5%, contro l’1% che caricato in precedenza. Semplificando, nel finanziarsi in dollari la Bce e gli istituti nazionali di regno Unito, Giappone, Canada e Svizzera sosterranno costi inferiori, cosa che permetterà loro di allargare le maglie del credito nella concessione dei prestiti alle banche private. Una mossa che porta sollievo ai mercati ma anche notevoli preoccupazioni.

L’essenza del paradosso è più o meno tutta qui. In un momento come questo in cui ogni singola area monetaria sembra ragionare egoisticamente diffidando delle omologhe, il fatto stesso che le principali economie del mondo riescano a coordinarsi tra di loro per un intervento di emergenza può significare una cosa sola: e cioè che la situazione è davvero grave. Da subito, l’autorevole Forbes ha provato a leggere tra le righe del comunicato ufficiale della Fed, che segnalava come le istituzioni finanziarie Usa “non abbiano per il momento particolari difficoltà nell’approvvigionamento di liquidità” ma ricordava anche che, in caso di necessità, “resterebbero a disposizione molti strumenti” utili a fornirne. Chi i problemi di liquidità e credit crunch li soffre già ora, sono dal canto loro le banche del Vecchio Continente. Per le quali, dunque, giunge come una benedizione l’intesa ulteriore sugli accordi bilaterali di swap tra le varie controparti centrali per i prestiti in Yen, franchi, dollari canadesi e sterline. “Al momento – sottolinea ancora la Fed – non c’è la necessità di fornire liquidità in valute estere che non siano il dollaro, ma la banche centrali credono prudente prendere tutti gli accordi necessari affinché, in caso di necessità, queste misure possano essere realizzate in fretta”.

Il grande spettro, a questo punto, è quello dello tsunami bancario, ovvero della combinazione credit crunch/svalutazione degli assets posseduti. Da qualche tempo, ha rivelato martedì la Reuters, la Grecia starebbe trattando un nuovo e più gravoso concambio sui suoi titoli di Stato. Ai creditori, in pratica, si chiederebbe un haircut non più del 50% bensì del 75%. In sostanza, le banche che possiedono obbligazioni greche, potrebbe andare incontro a perdite superiori di un terzo rispetto a quelle già preventivate. In base ai dati sulle esposizioni forniti dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bis – Bank of International Settlements), nei mesi scorsi il Wall Street Journal aveva quantificato in 1,4 miliardi l’ammontare delle perdite sulla Grecia patite dalla banche francesi. 840 circa quelle degli istituti tedeschi, quasi 300 per i portoghesi e poco più di 200 per gli italiani. I poveri ciprioti brucerebbero circa 1 miliardo di controvalore, gli istituti privati ellenici circa nove volte tanto.

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