C’è poco da stare allegri. Un’intercettazione off records di Sarkozy rende noto come egli sia convinto che la Merkel stia portando l’Europa alla catastrofe e una volta tanto si è fortemente tentati di dargli ragione, mentre il commissario agli affari europei Olli Rehn mette in guardia sui rischi della disintegrazione dell’Europa, a meno che non si proceda a una riforma.
Il problema però è che l’Europa, così com’è, serve veramente a poco. Basti guardare le cifre relative alla disoccupazione giovanile, o prendere in considerazione il fatto che le ricette proposte, la cosiddetta “riforma” di cui parla Rehn, prevedono in sostanza la conferma, anzi il rafforzamento, delle politiche neoliberiste e monetariste fin qui portate avanti, con una più forte sorveglianza sulle scelte degli Stati, ma sempre in ossequio al principio del bilancio sano, che, nell’attuale situazione di crisi internazionale, comporta il taglio delle spese sociali e l’alienazione dei beni comuni. Politiche che suscitano forti proteste in Gran Bretagna e, in Italia non solo la contrarietà della Cgil ma anche quella dei sindacati finora più allineati al governo. Il double dip incombe su di un orizzonte di forte recessione aggravato dalle scelte inconsulte delle oligarchie europee.
Vengono al pettine una serie di nodi. A livello europeo, come scrivo nel mio prossimo libro su crisi finanziaria e diritto internazionale, va riconosciuto che «la reazione dell’Unione europea alla crisi in atto è indubbiamente condizionata in modo negativo da tre fattori di fondo. In primo luogo il fatto che ne fanno parte Stati a livelli di sviluppo alquanto differenti, in assenza, nonostante l’effettuazione di vari tentativi in questo senso, di concreti risultati da parte delle politiche volte al superamento degli squilibri territoriali. In secondo luogo la sua ispirazione esasperatamente neoliberista. In terzo luogo i limiti delle possibilità di manovra delle istituzioni europee, le quali, pur in presenza di una valuta comune, non possono avvalersi di comuni strumenti di governo dal punto di vista della politica economica e fiscale». A livello internazionale i perduranti squilibri del sistema monetario e il peso enorme dei capitali privati. Rispetto al primo di questi problemi, il gruppo di saggi presieduto dall’ex presidente del Fmi, Camdessus, aveva, già a febbraio avvertito che è necessaria una maggiore vigilanza non tanto nei confronti dei piccoli Paesi quanto delle grandi Potenze il cui operato si riflette sull’insieme del sistema. Sembra quindi, sia detto per inciso, che non sia tutta colpa delle “cicale”… Mentre, rispetto al secondo, scontiamo ancora le resistenze di Stati Uniti, Giappone e Canada a tassare in qualche modo il capitale finanziario mediante la cosiddetta Tobin Tax sulla circolazione internazionale dei capitali. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Monti, che di Tobin fu a suo tempo allievo, ma la risposta sembra scontata, in modo invero deprimente.
In controtendenza appare invece la scelta dei Paesi latinoamericani di dare vita a un nuovo tipo di organizzazione regionale, il Celac , al cui ordine del giorno vi sono problematiche come lo sviluppo sociale, lo sradicamento della fame e della povertà, le esperienze di politiche energetiche, la diffusione globale dell’educazione, la salute, la sicurezza alimentare e il cambio climatico, ossia i problemi reali della gente in carne ed ossa, in una prospettiva di costruzione democratica di un futuro condiviso. Un esempio da seguire anche per il nostro decadente continente, in preda agli squali della finanza globale e mal diretto da una classe dirigente di una mediocrità senza precedenti, al cui confronto Kohl e Mitterrand sembravano figure addirittura… titaniche.