Ici, Iva e stretta sulle pensioni. Il tutto condito da un poco confortante annuncio sull’ormai certa contrazione del Pil nell’anno a venire. Eccola dunque la tanto attesa manovra di Natale, il piano di risanamento dei conti pubblici che, sospettano in molti, è stato reso noto ad Angela Merkel e Nicholas Sarkozy prima ancora che il pubblico italiano e il suo parlamento potessero venirne a conoscenza. Eccolo, il piano di salvataggio “duro ma necessario” da lacrime e sangue, ennesima versione di una terapia già sperimentata con poco successo nella sempre più balbettante Europa. Eccola, insomma, la strategia di rilancio, con tutti i suoi dubbi e le sue certezze. E con i primi, ovviamente, a prevalere sulle seconde.
Rigore, equità, crescita. Questi, si era detto fin da subito, i pilastri della ripresa italiana. Monti e i suoi ne avevano fatto un punto d’onore, una parola d’ordine da mantenere a tutti i costi. Forse, va detto, c’è ancora il tempo per integrare le politiche d’intervento, per avviare quel processo di svolta atteso da tempo immemore. Ma per il momento, ed è questa la sola certezza disponibile, il programma resta deficitario. Perché il rigore non manca, e questo era scontato, ma di equità se ne vede davvero poca. Quanto alla crescita, in compenso, neanche a parlarne. Anzi.
L’altra vera notizia di giornata è condensata in poche cifre. Il Pil italiano, spiega l’esecutivo, si contrarrà dello 0,4% o forse 0,5% nel corso del 2012. Nell’anno seguente, invece, dovremmo avere nella migliore delle ipotesi una crescita zero. Traducendo: ci aspetta un biennio di recessione e stagnazione, due fenomeni di cui davvero non si sentiva alcun bisogno. Certo, la crisi incombe su tutto il continente e gli effetti sono negativi per tutti. D’altra parte se a soffrire gli effetti della frenata sono anche Francia e Germania non è pensabile che l’Italia possa fare eccezione. Eppure i dati di fatto del contesto economico continentale non giustificano le pesanti assenze di una manovra che fa molto per i conti e assai poco per lo sviluppo. Scaricando da un lato il peso dei sacrifici sui soliti noti (lavoratori, pensionati, contribuenti), e privando le imprese di quell’ondata di liberalizzazioni di cui tutto il sistema avrebbe bisogno.
Non stupisce che la prima vera stangata si abbatta oggi sul sistema pensionistico. Era tutto già scritto da tempo, forse da decenni, in un sistema dimostratosi negli anni particolarmente iniquo. Il costo complessivo del sistema è diventato intollerabile, un po’ per il progressivo invecchiamento del Paese, un po’ per il persistente peso dei privilegi accumulatisi negli anni d’oro della grande generosità. Elsa Fornero aveva rotto gli indugi prima ancora della sua nomina a ministro del Welfare chiarendo, in un articolo pubblicato sulla rivista Italiani Europei, la necessità di un’estensione erga omnes del sistema contributivo con inevitabile innalzamento dell’età pensionabile. In pratica trattamenti pensionistici posticipati con retribuzioni complessivamente inferiori. Per lo Stato, aveva sostenuto la Fornero, si tratterebbe di risparmiare alcune decine di miliardi di euro nel prossimo quinquennio. Per i lavoratori di oggi, si potrebbe aggiungere, si tratta al contrario di pagare il conto dei favolosi anni ’80 e ’90, l’era dei pensionati quarantenni e degli statali sugli scudi, l’age d’or del clientelismo democristiano e dei privilegi di una spesa pubblica senza fondo.
Sacrosanta, al tempo stesso, appare la scelta di reintrodurre l’Ici. Una decisione che colma un terrificante vuoto contabile che le amministrazioni locali, private di una voce chiave delle proprie entrate in nome della demagogia dell’ex premier, avevano scaricato sui professionisti e le imprese tuttora in attesa di riscuotere i propri crediti oltre che, ovviamente, sui cittadini stessi, chiamati a versare imposte occulte attraverso gli aumenti delle tariffe. E a proposito di tasse nascoste non stupisce la nuova ondata di rincari promossa dalla manovra governativa attraverso gli inevitabili aumenti sulla benzina e l’innalzamento di due punti percentuali sull’Iva. Una decisione, quest’ultima, che produrrà di fatto una crescita dell’inflazione in un momento di evidente recessione. La peggiore combinazione possibile.
E qui si torna alla questione iniziale, quella relativa al processo di crescita. La crisi dei debiti in Europa ha dimostrato chiaramente come la manovre di austerità siano, di per sé, non solo inefficaci ma addirittura controproducenti. In altre parole, stringere sulla spesa pubblica senza aprire alle opportunità di crescita è risultato negli ultimi anni semplicemente deleterio. Ne sanno qualcosa i greci, gli spagnoli e i portoghesi. Ma lo hanno capito soprattutto gli irlandesi che, resistendo alla pressione esterna di chi invocava un innalzamento della tassazione sule imprese, hanno lasciato intatta la fonte stessa della crescita degli anni passati. Ogni Paese, è chiaro, fa storia a sé. E l’Italia, forse, saprà trovare una nuova strada per garantire in futuro la necessaria espansione economica. Ma per il momento non c’è traccia di provvedimenti a sostegno del rilancio. Le liberalizzazioni dei settori, il superamento delle barriere corporative, la semplificazione dei regolamenti per l’avvio delle attività commerciali e imprenditoriali restano ancora confinate largamente alla categoria dei buoni propositi. Si è parlato di reddito minimo garantito, ovvero di quel sistema dei sussidi di disoccupazione che consentirebbe di aprire alla flessibilità del mercato del lavoro tutelando i lavoratori stessi. Ma la proposta è ancora ferma. Per il momento, insomma, vince ancora il metodo Marchionne senza che le controparti abbiano ottenuto qualcosa in cambio. Per una manovra da 30 miliardi (20 di tagli, 10 di intervento) si tratta di una mancanza troppo evidente che dovrà essere colmata al più presto. Prima che sia troppo tardi.