Cultura

Da Le Havre a Lampedusa

In questi giorni si proietta nei cinema italiani un film eversivo. La parola non è esagerata. Eversivo vuol dire fuori dalla legge e contro la legge. Sto parlando di Miracolo a Le Havre che è la storia di un bambino africano, illegale e clandestino che viene nascosto, accolto e protetto da una intera comunità e messo in salvo da un poliziotto. Se Roberto Maroni, ministro dell’Interno italiano fino a pochi infelici giorni fa, fosse ancora al suo posto, il suo mattinale descriverebbe così Le Havre: “Mercanti di carne umana trasportano illegalmente in Europa un nero che non è meno pericoloso solo perché è un bambino. Crescerà e sarà una nuova recluta del vasto esercito di criminali immigrati che mettono in pericolo la sicurezza dei bianchi”.

Non vi sembri un gioco, una parodia. Purtroppo non lo è. Tranne il riferimento iniziale al film, ho trascritto frasi che il ministro dell’Interno italiano ha effettivamente detto nel nostro Parlamento, tra applausi, ovazioni e pioggia di voti favorevoli per il suo “pacchetto sicurezza”, una legge stravolta che vedeva un criminale e un nemico in ogni profugo, in ogni rifugiato, in ogni persona e famiglia che, rischiando la vita nella traversata del mare, veniva a chiedere aiuto in Italia. E aveva introdotto nella legge italiana il reato di “clandestinità”, un reato che solo un razzista poteva inventare, perché punisce quello che sei, non quello che fai. Il regista di Le Havre, il finlandese Aki Kaurismäki, è stato fortunato. Fino a pochi giorni fa avrebbe potuto essere incriminato, in Italia. Ma fortunati sono certamente i cittadini italiani che in questi giorni stanno affollando le sale in cui il film sta diventando una zona extraterritoriale di civiltà.

In esso sono in vigore principi e sentimenti che l’Italia aveva abbandonato e disprezzato apertamente durante gli anni del regime, e a cui aveva tentato di piegare (per fortuna non sempre con successo) le istituzioni. Per capire è bene tornare al film e alla storia. Idrissa, ragazzino nero rinchiuso in un container assieme ad altri neri del mondo in fuga da una tragedia e in cerca di vita (Idrissa cerca la madre) riesce a fuggire mentre il container viene aperto per un’ispezione nel porto di Le Havre. Un poliziotto sta per sparare sul piccolo transfuga, ma il commissario Monet lo blocca. “Io sono indifferente al destino di un criminale. Ma non alla vita di un bambino profugo”. Ecco uno che ci ricorda, nella poetica invenzione di un film, una persona vera, il prefetto di Roma Carlo Mosca, che si è dimesso (ovvero, gli sono state chieste le dimissioni) piuttosto che ubbidire alla folle idea di prendere le impronte digitali al bambini nomadi. Ma è questa la grandezza del film. Pone continuamente lo spettatore, che non guarda il passato o l’immaginazione, ma la storia di questi tempi e di questi giorni, di fronte alla domanda: tu che cosa faresti?

Un dignitoso e povero lustrascarpe che nella sua vita ha solo un cane affettuoso e una moglie amorosa e malata terminale, porta al sicuro il bambino in fuga, se ne occupa con altruismo austero e del tutto indifferente alla legge (che non è la persecuzione italiana, ma è pur sempre arbitraria e prepotente con i poveri) e intanto cura la moglie. E avviene questo “miracolo” che dà il titolo al film: i vicini, che potrebbero denunciare il bambino nascosto, proteggono (tranne uno, uno solo, a cui viene data la voce e il volto di qualcuno che denuncia gli ebrei negli anni Quaranta). Il commissario di polizia vede e non vede, seguendo un codice umano che per lui conta di più e viene prima delle forme legali che lui dovrebbe seguire. Ma due storie si intrecciano e per un momento si toccano, per il protagonista, che è il lustrascarpe buono: la fuga del bambino, la malattia della moglie.

Lui presta la stessa meticolosa attenzione all’uno e all’altra, mostrando che impegnarsi nella vita degli altri non è qualcosa che si fa nel tempo libero. È una regola di vita. Il rigore austero del regista, di cui il lustrascarpe buono è “la persona” e il simbolo, fa accettare con gratitudine agli spettatori il fatto che un miracolo è un miracolo. Il bambino si salva e la moglie malata guarisce. Tutto ciò non serve a dire che se siete buoni sarete ricompensati. Dice invece, con uno strano candore e una forza che sembra, alla fine, conquistare gli spettatori, che ogni cosa buona e onesta e altruistica produce “miracoli” ovvero altre cose buone.

Resta una domanda: poiché qui parliamo di eventi pubblici e comuni (che fare con gli immigrati che vengono a invadere la nostra vita), che tipo di fiaba è? Rispondo che è un manifesto politico per un partito che non esiste e ripropone la fraternità come il legame che cambia tutto. La bellezza del film di Kaurismäki è di non essere né troppo grande né troppo piccolo. Non grida e non sussurra. Semplicemente racconta. Lo fa con una fermezza e un coraggio che prima non aveva avuto nessuno. Uscite dalla sala e pensate agli uomini, alle madri, ai bambini, alle giovani donne incinte che sono stati ritrovati sotto le barche rovesciate davanti a Lampedusa. Pensate ai “respingimenti in mare”, agli affondamenti, ai pescatori incriminati per avere soccorso in mare e portato aiuto. Alle navi della Nato che avvistano e ignorano gente che sta morendo. Pensate ai profughi lasciati per due mesi aggrappati agli scogli di Lampedusa col sole e la pioggia, senza nessuna assistenza o intervento. Pensate ai campi di detenzione detti “di identificazione e di espulsione”, dove la detenzione è arbitraria, priva di regole. E vi rendete conto che, per l’Italia, Kaurismäki arriva come un medico che porta, con ferma benevolenza, una cura: contro la cattiveria organizzata che ha tormentato per anni il nostro Paese.

Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2011