L'operaio, nato a Latina nel gennaio 1954 e trasferitosi a San Lazzaro, alle porte di Bologna, nel 2000, si è tolto la vita nella notte tra il 16 e il 17 febbraio 2011. Anni fa aveva sconfitto un melanoma maligno alla spalla ed era stato inserito in una categoria protetta, ma sul luogo di lavoro ha continuato a svolgere mansioni pesanti
Si indaghi per omicidio colposo perché il suicidio di un operaio disabile potrebbe essere stato determinato da stress lavorativo. Il caso su cui si chiede l’intervento della magistratura bolognese è quello di Gabriele Croatto, 56 anni, che era scampato al cancro, un melanoma maligno alla spalla sinistra diagnosticato nel 1999 quando era al terzo stadio. Il tumore l’aveva sconfitto, malgrado un intervento che gli aveva lasciato lesioni permanenti dovute allo svuotamento del cavo ascellare. E da allora era stato inserito nelle categorie protette, vedendo compresso il 60% della capacità lavorativa. Ma alla fine l’uomo si è arreso. Non alla neoplasia e nemmeno alle forze perdute, lui che era sempre stato un uomo attivo, uno di quelli che in casa i lavori se li faceva da solo, senza chiamare artigiani da fuori.
L’operaio, nato a Latina il 20 gennaio 1954 e trasferitosi a San Lazzaro, alle porte di Bologna, nel 2000, si è tolto la vita nella notte tra il 16 e il 17 febbraio scorsi in un hotel di Sabaudia, quello in cui ogni tanto la Roma, la sua squadra del cuore, si ritirava. Vicenda tragica, lucidamente pianificata dall’uomo che, malgrado la depressione, aveva curato nel dettaglio l’ultimo viaggio, dagli spostamenti alle lettere lasciate alla moglie e a ciascuno dei tre figli. Ma dal punto di vista giudiziario, constatato il decesso e ricostruita la dinamica, il capitolo si era chiuso non avendo ravvisato alcun elemento che nella dinamica della morte chiamasse in causa altre persone.
Forse, però, la ricerca di responsabilità esterne non andava ricercata in quelle ore di vita residue. Andava cercata a ritroso, negli ultimi anni della sua esistenza. Lo suggeriscono oggi due documenti. Il primo, presentato all’Inail, e il secondo, un referto all’autorità giudiziaria spedito alla procura della Repubblica di Bologna, con un’ipotesi: che il suicidio sia stato provocato da stress lavorativo. Così all’Istituto nazionale infortuni sul lavoro si chiede di valutare l’eventualità di un risarcimento mentre ai magistrati bolognesi di verificare se sussistano gli estremi per l’apertura di un fascicolo ai sensi dell’articolo 589 del codice penale. Articolo che tradotto, in termini meno tecnici, parla di omicidio colposo.
A compiere a queste due azioni è stato Vito Totire, medico del lavoro e presidente nazionale dell’Aea (Associazione esposti amianto e rischi per la salute), che ha analizzato la documentazione medica che la moglie di Croatto ha messo a disposizione. E da questa analisi viene ricostruita una storia che comincia all’inizio del 2003, quando l’operaio era in predicato di essere assunto presso una società per azioni di Medicina, la Biolchim, realtà internazionale nella produzione di fertilizzanti, concimi e fitofarmaci. Fu allora, infatti, che Croatto, inserito nelle categorie protette in base alla legge 68 del 1999, quella che contiene “le norme per il diritto al lavoro dei disabili”, venne sottoposto a una serie di visite mediche.
In base a queste, fu accertato che l’operaio “non [andava] adibito a mansioni che necessitino la presa di forza con l’arto superiore di sinistra” e pur “non presenta[ndo] segni di recidiva del melanoma […] evidenzia[va] bronchite cronica ostruttiva con dispnea da sforzo, ipoacusia sulle alte frequenze e marcato deficit visivo”. Dunque, per lui, l’inquadramento lavorativo doveva tenere conto del fatto che si dovevano “evitare l’esposizione a rumori e vibrazioni di elevata intensità e la movimentazione di carichi del peso superiore ai 6-8 chilogrammi ribadendo la necessità di un collocamento mirato”.
Sul contratto di assunzione di Gabriele Croatto c’era scritto così che sarebbe stato “addetto al mulino di macinazione”. Grosso modo dunque l’intenzione era quello di assegnarlo a una console da cui, tramite tasti e leve, i meccanismi di produzione fossero controllati elettronicamente. Ma poi, nella pratica, Croatto iniziò a stare male e ai familiari disse che i suoi malesseri potevano derivare dall’ambiente di lavoro.
Negli anni successivi non si contano i referti sanitari che raccontano di una prolungata sofferenza fisica. Tra il 2006 e la fine del 2010, quando inizia a interrompersi la storia clinica di Croatto, finisce al pronto soccorso o ricoverato per febbri improvvise, deficit respiratori, dolori al cavo ascellare e gonfiori ai linfonodi. Ci sono state lombalgie determinate, secondo i medici, dal sollevamento di pesi e cefalee da “sforzi sul lavoro e stress”. E c’era stato anche un infortunio, nell’estate 2009, lo schiacciamento del terzo dito della mano sinistra. A questo si devono aggiungere i certificati di malattia per disturbi polmonari, di nuovo lombalgie e problemi al collo e alla colonna vertebrale.
Alla sofferenza fisica, a partire sempre dal 2006, si era aggiunta quella psicologica. I referti parlano di “una sindrome depressivo-ansiosa reattiva a situazione lavorativa”, che si è cercato di curare con farmaci adatti. Ma si era ripresentata sempre, approfondendosi, tanto da costringerlo ad assentarsi dal lavoro per ricadute che con il tempo si erano fatte più frequenti. La situazione si era protratta al punto all’Inps era stato richiesto il riconoscimento di uno stato di invalidità provocato anche dalla depressione. E a fine settembre 2011, sette mesi dopo il suicidio di Gabriele Croatto, è stato comunicato che il “giudizio medico-legale conclusivo riconosce invalidità per disturbo ansioso-depressivo da stress lavorativo in trattamento specifico”. Riconoscimento che partiva a decorrere dal 1 febbraio 2011.
A fronte di tutto questo com’è stato possibile che l’operaio d’origine laziale sia stato lasciato scivolare verso il suicidio? Un’interrogazione parlamentare a risposta scritta rimasta finora inevasa nonostante sia stata presentata lo scorso giugno ai ministri del lavoro, delle politiche sociali e della salute dal deputato Fli Enzo Raisi, racconta ulteriori fatti. Croatto aveva chiesto più volte un cambio di funzioni, venendo destinato a un certo punto anche all’incarico di autista nonostante un problema congenito alla vista e al confezionamento liquidi. Ma anche stavolta i suoi problemi fisici – e a ruota quelli psicologici – non si sarebbero attenuati.
Allora, come ennesimo tentativo, l’operaio si era rivolto al dipartimento di sanità pubblica dell’Asl ottenendo l’8 febbraio 2011 questa risposta: “Può essere ritenuto idoneo alla mansione di addetto al confezionamento liquidi con le seguenti prescrizioni: di adibire esclusivamente alle linee dotate di dispositivo di sollevamento meccanizzato dei contenitori. La movimentazione manuale dei carichi, qualora occasionalmente richiesta, deve essere limitata a carichi inferiori a 5 chilogrammi”. Una conferma delle perizie precedenti.
A questo punto Gabriele Croatto non ce l’ha più fatta. Forse la goccia definitiva è stata un piccolo incidente stradale, un tamponamento di cui parla in una lettera lasciata ai figli, e ha iniziato a pianificare la sua fine. Il 15 febbraio, il giorno dell’anniversario del suo matrimonio, è partito senza dire nulla. Prima tappa a Terracina, hanno ricostruito i biglietti del treno e l’ultima cella agganciata dal suo cellulare, per poi spostarsi a Sabaudia facendola finita con una corda, acquistata il 16 febbraio a ridosso della chiusura dei negozi.
“Che il suicidio sia una conseguenza allo stress lavorativo è definito da linee guida europee”, dice Vito Totire, l’autore del referto su Croatto spedito all’autorità giudiziaria. “La mia intenzione è quella di riprendere anche altre vicende di persone che si sono suicidate a causa di situazioni di incertezza occupazionale. Ci sono stati casi a Bologna, Castel San Pietro, Molinella e in altri centri della zona, e non è possibile fingere che l’abbiano fatto per una delusione amorosa. Si deve andare a vedere se c’è una relazione con lo stress lavorativo, un nesso con la condizione occupazionale o spesso disoccupazionale. In uno Stato civile occorrerebbe prevenire questi eventi, ma una volta che la prevenzione non ha funzionato non è concepibile che al lutto non faccia seguito una minima capacità di supporto alle famiglie. Come lo dobbiamo definire un cassintegrato o un lavoratore sofferente che si impicca?”