Non più tardi di settembre, il vicedirettore Bankitalia, Anna Maria Tarantola, ha ripetuto quanto va dicendo da qualche tempo: “Un tasso di occupazione femminile al 60 %, obiettivo del trattato di Lisbona, comporterebbe un aumento del Prodotto interno lordo fino al 7%”. Nei fatti, l’Italia vede l’occupazione femminile ferma al 47% e il Pil in affanno. E’ incomprensibile il motivo per cui si parla tanto di lavoro alle donne e non si fa nulla. Oltretutto, un Pil più alto consentirebbe di presentarsi ai famosi mercati con un rapporto meno svantaggioso rispetto al debito pubblico.
Chiamate a raccolta domenica prossima, le donne sono stanche delle promesse. Facciamo un primo punto con Elisabetta Addis, economista e componente del comitato promotore di Snoq.
Elisabetta, dire che le donne guadagnano ancora meno degli uomini è quasi una banalità. A che punto siamo, sul fronte dei differenziali salariali?
Siamo al punto di sempre. Le donne guadagnano in media circa un 20/25 per cento in meno degli uomini. Alcuni hanno obiettato che la differenza è dovuta al fatto che in realtà i lavoratori maschi avrebbero “caratteristiche produttive” migliori: più istruzione, più anzianità lavorativa, giusto settore (sono metalmeccanici piuttosto che tessili e i metalmeccanici guadagnano di più). Ma una vasta letteratura statistica mostra che il differenziale rimane anche quando si paragonano un lavoratore e una lavoratrice con caratteristiche simili, stessa istruzione, stessa anzianità, stesso orario e anche stesso settore. Un 10/12 percento, a seconda dei dati usati e delle caratteristiche che si considerano, rimane sempre inspiegato. Questa differenza, che non è giustificata, si ritiene dovuta a discriminazione. Nel pubblico, si possono imporre salari paritari. Ma in un sistema di aziende private può perfino essere pericoloso ricercare a tutti i costi la parità salariale, perché le imprese che possono assumere discrezionalmente assumeranno più maschi, se il salario è lo stesso, e femmine solo se si lascia che prendano meno.
Che cosa pensi di eventuali incentivi fiscali per chi assume donne? Causa mancanza di servizi, non saranno poche le donne pronte ad accettare?
La via maestra per creare lavoro per le donne è fornire servizi pubblici alle famiglie (asili, scuole aperte a tempo pieno, ospedali che funzionino e non richiedano alle famiglie di concorrere materialmente all’assistenza). C’è un tasso di disoccupazione femminile del 9% nell’età adulta, del 29% tra le giovani: ma chi si dichiara disoccupato sta già cercando lavoro, mentre chi ha problemi familiari irrisolti rimane nel limbo dell’inattività. In questo contesto, diminuire il carico fiscale alle imprese che assumono donne mi sta bene, per carità, certamente non c’è da essere contrari.
Però non c’è da aspettarsi moltissimo da una misura di questo tipo: perché si sposta un po’ di domanda dalla componente maschile a quella femminile, si accresce un po’ la domanda di lavoro complessiva, e si mette sotto pressione la famiglia. Sta cioè a loro, alle famiglie e alle donne, sopportare i costi di aggiustamento, i costi di organizzazione. Sia chiaro, defiscalizzare va bene, ma questa è una misura che ha un costo anche per lo Stato: quello di rinunciare ai contributi defiscalizzati che ora le imprese pagano all’Inps, e poi verrebbero pagati dai contribuenti. Una misura alternativa sarebbe usare questi soldi per un serio piano di asili nido e case per anziani. Non ci sono studi con valutazioni comparate sui possibili usi di questi denari. La misura secondo me migliore in assoluto sarebbe una misura diretta alle banche: non c’è accesso paritario al credito, una giovane donna che vuole aprire un nido o una casa per anziani non trova i fondi. Per quella strada – usando i denari come garanzia ai prestiti fatti alle donne – si otterrebbe molto con poca spesa.
Quali saranno i prezzi da pagare, per le donne, sull’altare di Maastricht?
Se l’Italia fa default ed esce dall’Euro, secondo me la situazione sarà peggiore: ci saranno meno beni e servizi consumati in Italia, che non se l’euro regge. Essere parte dell’Europa, a mio parere, è bene per le donne italiane: è bene poter richiedere gli stessi diritti materiali, lo stesso accesso al welfare, la stessa voce in capitolo che le donne hanno nei paesi europei in cui sono più forti socialmente. Io spero che l’epilogo di questa crisi sia un’Unione Europea più forte, perché dotata di un governo dell’economia comune, di una autorità fiscale comune. Il passo precedente a questo è necessariamente una presa in carico del debito dei paesi in difficoltà, in particolare il nostro, a livello sovranazionale. Monti è la condizione per fare questo. Questa autorità fiscale dovrebbe anche essere a mio avviso adeguatamente democratica. Sarebbe sbagliato risolvere il deficit di democrazia creato dall’esistenza della Bce in assenza di un governo europeo con organismi comunitari che non abbiano adeguata legittimazione democratica. Fuor di metafora, l’autorità fiscale comune non deve emanare dai governi attuali, ma dal Parlamento europeo o da un processo elettorale ad hoc. I cittadini e le cittadine devono cominciare a parlare di cittadinanza europea proprio per evitare questo rischio.