Com’è noto oramai ad ogni cittadino bolognese e non solo, l’accettazione nella Consulta per la famiglia del Comune di Bologna delle due associazioni che rappresentano famiglie con omosessuali (Famiglie arcobaleno e Agedo) ha segnato la fuoriuscita delle associazioni familiari del mondo cattolico.
Il “dovere di uscire” è stato chiaramente sancito dalla Diocesi di Bologna perché riconoscere l’omosessualità, di genitori o figli, come “evento familiare possibile” rappresenta, secondo l’editoriale apparso domenica scorsa su Bologna sette “una grave offesa in primo luogo alla ragione e al buon senso comune”, ma anche “alla comunità civica, perché in palese contrasto con l’articolo 29 della Costituzione”.
La frattura, quindi, tra famiglie “legittime” e quelle che non lo sono, è ancora una volta segnata e il dibattito si polarizza, inevitabilmente, in posizioni “a favore o contro”. Gli argomenti utilizzati per definire cosa può essere ritenuto “famiglia” e cosa no continuano, però, a connotarsi d’ideologia, di giudizi dati senza validazioni empiriche, di posizioni politiche e/o dogmatiche, spesso avulse dalla dimensione reale. Tuttavia, sembra che anche la ricerca scientifica abbia qualcosa da dire. Da decenni, ormai, questi temi sono oggetto di studio e di analisi e, almeno nella comunità scientifica, si è diffusa la certezza che si debba parlare di una pluralità di famiglie possibili.
Al modello di famiglia “unico”, talmente radicato da essere definito naturale, si affiancano ormai da decenni altri modelli possibili che possono o meno “funzionare bene” non tanto per la loro forma ma piuttosto per la qualità delle relazioni che si sviluppano al suo interno. Anche sul tema della definizione della genitorialità, è assodato che esiste sia una genitorialità biologica, legata ovviamente all’atto procreativo, sia altre forme di legame genitoriale, come ad esempio quello adottivo, che si fondano sulla costruzione di una relazione forte e significativa con i figli, seppur svincolata dal dato biologico.
Anche se con un certo ritardo rispetto ad altri paesi, anche in Italia si registra un aumentato interesse per lo studio delle relazioni familiari nelle famiglie con genitori omosessuali, grazie anche al fatto che una buona parte di loro si è resa, finalmente, visibile e riconoscibile.
In particolare, è recentemente uscita una raccolta di studi, ricerche e riflessioni utili a chi vuole conoscere e capire, esercitare il dubbio, prima di esprimere le proprie convinzioni. Si tratta del volume “Maestra, ma Sara ha due mamme? Le famiglie omogenitoriali nella scuola e nei servizi educativi “, uscito recentemente a cura di Alessandra Gigli (ricercatrice in pedagogia Scienze dell’Educazione di Bologna) in seguito ad un Seminario di Studi organizzato nel 2010 dall’Università di Bologna.
Il volume si propone di rispondere ad alcuni tra gli interrogativi più controversi e diffusi: come crescono i bambini in queste famiglie? Si possono ravvisare delle differenze o delle problematiche nel loro sviluppo psico-fisico? E il loro inserimento nelle comunità educative può creare difficoltà e richiedere particolari strategie?
Che, anche nel nostro paese, nelle nostre scuole e nelle nostre città, vivano figli di genitori omosessuali, è un “dato di fatto” e le ricerche, svolte per decenni da psicologi, sociologi, psichiatri infantili, pedagogisti, dicono che questo non comporta, di per sé, alcun rischio “in più” nella crescita e nel loro sviluppo: queste famiglie possono funzionare bene o male al pari delle altre.
In particolare, i risultati di rigorose indagini empiriche condotte sulla paternità/maternità omosessuale e sullo sviluppo psico-socio-sessuale dei figli, dimostrano che “l’omosessualità dei genitori non influisce in senso disfunzionale sull’identità di genere, né sull’ identità di ruolo e neppure sull’orientamento sessuale dei figli. Figli di genitori omosessuali non hanno infatti più probabilità di manifestare problemi emotivi di quanto ne abbiano i bambini il cui genitore è eterosessuale; né hanno più probabilità di adottare un comportamento sessuale atipico o di diventare a propria volta omosessuali, più di quanto non accada a figli di genitori eterosessuali. Nei figli di coppie omosessuali non sono stati inoltre riscontrati problemi psichiatrici, problemi di adattamento o di personalità in misura maggiore rispetto a quelli riscontrati nel campione di figli allevati da coppie eterosessuali.” (Bertone C. , 2011). Il dato interessante è che nessuna ricerca scientifica afferma il contrario.
L’orientamento sessuale dei genitori non ha a che fare con la loro attitudine e la loro competenza genitoriale: anche l’American Psychoanalytic Association afferma che «Nell’interesse del bambino è sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di cure. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale». Nel mondo scientifico, dunque, si è affermato il concetto che l’omosessualità non è una qualificazione della genitorialità, ma una delle condizioni entro cui la genitorialità può essere esercitata.
L’unicità delle problematiche delle coppie omosessuali rispetto alla genitorialità è associata alla stigmatizzazione sociale e al non riconoscimento istituzionale di cui esse e i loro figli soffrono: i fattori di rischio non risiedono nell’essere genitori omosessuali, ma nei pregiudizi sociali sugli omosessuali. Tutte le ricerche, dunque, esprimono un dato concorde: l’omofobia e i pregiudizi, che possono tradursi in esclusione, isolamento, ingiustificati attacchi e aggressioni, sono il vero rischio per il benessere di queste persone e per i loro familiari.
Per chi esercita responsabilità politico-amministrative e per chi lavora in ambito educativo-sociale – qualunque sia la loro appartenenza ideologica, culturale, religiosa di partenza – la tutela dei diritti di tutti i tipi di minoranze dovrebbe costituire un impegno fondamentale sui cui far convergere progetti di promozione della coscienza democratica e civile dei cittadini.
Sapendo di avere davanti a sé due possibili ostacoli: il primo, e più diffuso, è riconducibile allo “spiazzamento” che si genera in chi si imbatte per la prima volta in una tipologia di famiglia “non convenzionale” e, finora, neppure immaginata. Le difficoltà che ne conseguono sono comprensibili (e vanno comprese!) e i primi a comprenderle sono proprio i genitori omosessuali, generalmente molto attivi e disponibili a raccontarsi e confrontarsi con gli altri (in particolare con altri genitori, educatori…). Lo fanno con la convinzione che occorra conoscersi e che solo attraverso l’incontro e lo scambio reciproco si possa andare oltre i pregiudizi di partenza.
Il secondo ostacolo è rappresentato da chi non riconosce lo statuto di famiglia alle coppie omogenitoriali in nome di principi che, essendo di tipo morale e religioso, hanno, secondo loro, una validità universale a cui tutti devono uniformarsi. Con costoro il dialogo può risultare sicuramente più difficile e a volte, come insegna la cronaca, impossibile.
Le fuoriuscite dalla consulta e i ricorsi al Tar non stupiscono affatto e possono essere considerati come manifestazioni di “resistenze ad un cambiamento” che, però, si sta già inesorabilmente già compiendo. Pensando al pessimo esempio d’intolleranza, cui sono esposti i figli di quei genitori omosessuali o quei genitori di figli omosessuali indicati come “non ammissibili” al tavolo delle famiglie, ci si può consolare, seppur solo in parte, pensando che, i ricorsi stessi, possono diventare occasione di riflessione e di dialogo per la città, e di lenta, graduale (e auspicabile) riforma del pensiero.
Le autrici dell’articolo sono Mariagrazia Contini e Alessandra Gigli docenti universitarie e autrici di “Maestra, ma Sara ha due mamme? Le famiglie omogenitoriali nella scuola e nei servizi educativi “, Guerini, Milano, 2011