Dal fallimento delle cooperative leghiste a Reggio Emilia a quello della banca in quota Carroccio di Fiorani, gli affari che gravitano, e finiscono male, attorno al cerchio magico del Senatur
Dal racconto di Facco, la Lega Nord ne esce con i contorni di una formazione politica a conduzione familiare, o familista, con il ruolo dei figli di Bossi, a iniziare da Renzo, il “Trota”, della seconda moglie, Manuela Marrone, matrona silenziosa e potente, e del cerchio magico, di cui fanno parte personaggi come Rosy Mauro e Marco Reguzzoni. Ma la si descrive anche come il luogo delle affermazioni rimangiate e delle condotte politiche mutate di 360 gradi fino al (nuovo) patto del 2001 con l’amico-nemico Silvio Berlusconi (credito da 2 miliardi di lire compreso, come ha documentato il ilfattoquotidiano.it). E ancora come un tribunale per l’epurazione dei dissidenti, che hanno compreso anche l’ideologo Gianfranco Miglio, e una corte con una gestione del denaro quanto meno discutibile.
È questo il quadro che viene fuori dalla ricostruzione di Facco. Presentando il libro a Bologna alla Libreria Irnerio, si era però cercato il confronto con i leghisti emiliani. Ma Manes Bernardini, consigliere comunale e regionale, invitato a parlarne, ha prima risposta che avrebbe dovuto consultare il consiglio federale del partito e poi, all’ultimo, ha declinato tramite la sua segreteria per la concomitanza con le commissioni convocate in viale Aldo Moro.
Venendo al libro, si parla molto di economia in “camicia verde” e si parla anche di cooperative padane riferendosi tra l’altro a una di Reggio Emilia. “Si tratta di una storia che risale al 1998”, dice Leonardo Facco, “quando nasce a Milano la Made in Padania Coop. Genesio Ferrari, l’allora presidente della Lega Nord Emilia, dà la sua disponibilità a creare canali commerciali a Reggio reperendo i locali, oltre che investendo di tasca propria”.
Come si comporta allora?
“Ne discute con Roberto Calderoli, senatore e fino a poco tempo fa ministro del governo Berlusconi, ottenendo il nulla osta. La richiesta di partenza è di 10 milioni di vecchie lire, che Ferrari versa (e nel libro cito i documenti con i bonifici) senza però ottenere alcuna risposta. Silenzio anche dalla dirigenza milanese di via Bellerio. Insomma, vai a verificare e Calderoli dall’operazione cooperative padane si era sfilato. Intanto il progetto era diventato un buco che finisce in liquidazione senza che chi aveva messo una quota venga risarcito. Lo stesso Ferrari ci rimette i suoi 10 milioni. Quello di Reggio Emilia è un comportamento emblematico del business leghista in azione”.
Calderoli, peraltro il padre dell’attuale legge elettorale definita da lui stesso una porcata, è un nome citato in una recente sentenza della Cassazione per le scalate bancarie. Che dice di lui la Corte Suprema?
“Quella raccontata dalla Cassazione è una vicenda importante. Devo premettere che oggi Calderoli, sulle questioni rilevanti riconducibili al cerchio magico, conta un po’ meno che in passato, ma in tutti gli affari della Lega è stato presente riuscendo a smarcarsi quando si metteva male. In relazione alla sentenza, che poi è quella su Aldo Brancher – il ministro “lampo” condannato in uno stralcio del processo sul tentativo di scalata ad Antonveneta da parte della Banca Popolare Italiana –, si scrive senza mezzi termini che Calderoli prese 200 mila euro di Gianpiero Fiorani, arrestato e condannato proprio per quella scalata. Brancher e Calderoli sono i due personaggi che da sempre si incontrano nelle faccende economiche leghiste, hanno un rapporto strettissimo, ma il secondo è riuscito a cavarsela perché nella complessità dell’inchiesta il focus si è concentrato a un certo punto su Credieuronord”.
La banca leghista fondata nel 2001 e fallita nel 2004 che proprio Fiorani, con la Banca Popolare di Lodi, cercò di salvare?
“Sì e questa è una vicenda ancora tutta da scoprire perché si lega ad altre ancora lontane dall’essere chiarite. Mi riferisco per esempio a tema che si è trascinato fino a oggi, quello delle quote latte. Si tratta della storia di 600 agricoltori su 30 mila, alcuni molti vicini alla Lega Nord, che non hanno pagato le sanzioni europee. Non bisogna dimenticare che il partito ha fatto fuori il suo uomo all’interno della Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura) perché pretendeva che gli agricoltori pagassero le multe. Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte e con un passato da senatore leghista, condannato per la questione delle quote in secondo grado a Saluzzo e in primo a Pordenone, era anche nel consiglio d’amministrazione di Credieuronord. Quindi voglio capire qual è il rapporto tra Credieuronord e quest’altra faccenda. Secondo me è molto importante e sto lavorando proprio su questo fronte. Vediamo dove mi porterà la documentazione”.
Però, malgrado malversazioni varie, nell’ultimo decennio anche in Emilia Romagna la Lega Nord ha consolidato le sue percentuali di voto, per quanto con qualche recente arretramento. Perché?
“Dopo gli anni della nascita e quelli dell’esplosione fino al 1996, la Lega ha iniziato un percorso che l’ha portata ad abbandonare qualsiasi politica di riforma vera, che fosse federalista alla Gianfranco Miglio o secessionista alla Umberto Bossi. Il partito non aveva più alcuno slogan, se non quello in cui annunciava una generica intenzione di distruggere la nazione. E proprio allora, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo, Bossi adotta la sua nuova parola d’ordine: ‘Sicurezza, sicurezza, sicurezza’. Che piaccia o meno la questione immigrazione in questo Paese non è stata gestita bene e ha creato più di qualche scompenso. Dunque, anche quello che era lo zoccolo duro dell’elettorato comunista in Emilia Romagna – costituito in parte da persone di ceto medio-basso che vivono in zone di case popolari a fitta densità di cittadini stranieri – si è sentito minacciato e si è rivolto alla Lega, portatrice di un messaggio anti-immigrati. Questa è una delle motivazioni politiche per cui in Emilia i voti si sono spostati. Il recente arretramento leghista, poi, è normale perché neanche questa crociata si riesce a soddisfare”.
Come dimenticare del resto lo slogan con cui la Lega Nord aveva inaugurato la campagna elettorale per le comunali bolognesi dello scorso maggio? “Indovina chi è l’ultimo”, si leggeva in giallo su fondo verde nei manifesti a sostegno della candidatura a sindaco di Manes Bernardini. Accanto a quella scritta, quattro personaggi di diverse etnie, caricature di cittadini stranieri, che lasciavano in coda a uno sportello un anziano italiano e suo nipote. La fila era proprio per quella per le case popolari.