“Noi non vogliamo aderire all’euro, siamo contenti di esserne fuori, come lo siamo di non fare parte della zona Schengen. Noi non vogliamo rinunciare alla nostra sovranità. Noi vogliamo i nostri tassi di interesse, la nostra politica monetaria”. Espresso senza giri di parole, il grande rifiuto di David Cameron è un implicito assist per un’aneddotica infinita. Dalla nebbia sulla Manica che causa “l’isolamento del Continente”, al sacrosanto diritto di misurare la birra in pinte e non in litri. Le battute, insomma, potrebbero andare avanti all’infinito perché gli inglesi, si sa, sono fatti così. La Gran Bretagna è prima di tutto un’isola e in Europa, è altrettanto noto, si guida da sempre dalla parte sbagliata. Ma qui in realtà conviene fermarsi. Perché spiegare l’epico scontro in termini di euroscetticismo sarebbe per lo meno riduttivo, se non addirittura completamente fuorviante. Qui, insomma, non si tratta di ribadire il peso di un antieuropeismo endemico quanto, piuttosto, di chiarire come sia stata la stessa crisi finanziaria a scavare tra Londra e il Continente un solco incredibilmente profondo. Che nessuna istituzione Ue, di fatto, sarà mai in grado di colmare.
La Gran Bretagna non accetterà mai l’imposizione di un Patto di stabilità europeo. Chi avesse mai avuto qualche dubbio ha trovato oggi la definitiva conferma. E di fronte al sì espresso al contrario dagli altri 9 membri Ue che non aderiscono all’euro, invocare il ruolo della sterlina (il cui peso comunque non è paragonabile a quello delle altre monete) non basta. La verità è che questo tipo di isolamento la Gran Bretagna può sopportarlo per il semplice fatto che non potrebbe permettersi di fare il contrario. Lo impone oggi la gestione della crisi, lo imporrà in futuro la gestione delle riforme finanziarie, il tema più importante, forse, dell’intera epopea globale scatenatasi nel dopo Lehman.
Dallo scoppio della crisi a oggi, la Gran Bretagna si è preoccupata essenzialmente di due cose: il salvataggio del sistema bancario e la gestione del proprio debito pubblico. Nel primo si è trattato di evitare il default cui tecnicamente erano già andati incontro alcuni istituti del Regno, da Blackrock a Lloyds fino a Royal Bank of Scotland. Il Tesoro britannico ha gestito l’operazione mobilitando il denaro dei contribuenti e trasformandosi nel principale azionista degli istituti. Ma il sistema, si sa, non può andare avanti senza “benzina” tanto più di fronte al rischio di una stretta creditizia senza precedenti. E’ stato a quel punto che la Banca d’Inghilterra si è fatta avanti iniettando la piazza di liquidità a basso costo, tagliando i tassi di interesse e avviando il più classico degli alleggerimenti quantitativi. E visto che la mobilitazione di fondi pubblici rischiava di far aumentare il rischio insolvenza – rendendo più costoso il rifinanziamento del debito – ecco scattare il buyback sui titoli di Stato. Tradotto: la Bank of England taglia il costo del denaro e stampa nuove sterline per riacquistare le obbligazioni sovrane. Non stupisce quindi che l’inflazione del Regno viaggi oggi sopra a quota 5%, contro il 3% medio sperimentato nell’eurozona. Ma per Londra evidentemente si tratta di un costo da sostenere senza alternative.
La Gran Bretagna, insomma, necessita di una politica monetaria pienamente autonoma. E poco importa che l’Europa cerchi al contrario un’unità di intenti sotto il profilo fiscale, contabile e finanziario. Ma le gestione delle rispettive valute non è tutto. A creare la grande frattura tra Londra da una parte e l’alleanza Parigi/Berlino dall’altra è stato anche lo spinoso tema delle riforme regolamentari sui mercati. Alla fine del 2008, l’Unione Europea ha iniziato a discutere la riforma del settore proponendo trasparenza e limitazione della leva. In pratica, nelle intenzioni dell’Ue, si trattava di stabilire un controllo sulle attività degli hedge riducendone la capacità di indebitamento (e quindi la portata delle operazioni speculative).
Per la sede del primo mercato finanziario europeo, era una richiesta semplicemente inaccettabile. A dare sostegno ai britannici ci avrebbero pensato gli svedesi che, nel corso della loro presidenza di turno dell’Unione (seconda metà del 2009), avrebbero proposto di lasciare ai singoli esecutivi nazionali il potere di limitazione della leva stessa. Affossando così ogni ipotesi di riforma. Il successivo scoppio della crisi del debito in Grecia avrebbe quindi modificato l’agenda delle priorità mettendo da parte le proposte di regolamentazione in attesa di tempi migliori.
La tensione tra Europa e Gran Bretagna è salita nuovamente durante l’estate. I dettagli relativi agli attacchi speculativi contro l’euro non sono noti, ma è certo che le speculazioni al ribasso sui titoli di Stato sono state realizzate un po’ ovunque. Impossibile, di conseguenza, pensare che i fondi britannici non ne abbiano approfittato al pari dei colleghi Usa. Il ricordo dei mesi più lunghi dell’euro, in questo senso, peserà di certo quando l’Europa tornerà a parlare di regolamentazione rilanciando, tra le altre cose, la famosa tassa sulle transazioni finanziarie e Londra, dal canto suo, continuerà a respingere qualsiasi richiesta di riforme. Negli ultimi dieci anni, ha rivelato ieri il Financial Times, il segmento degli hedge funds ha versato nelle casse del partito conservatore britannico circa 14,3 milioni di sterline. Più di metà della cifra è stata sborsata nel biennio 2009-2010, in coincidenza con la campagna elettorale e la successiva sconfitta del Labour (responsabile, a sua volta, della progressiva deregolamentazione degli anni precedenti). Negli ultimi dieci anni, il numero uno di Red Kite Michael Farmer e i suoi colleghi di Man Group Lord Fink e di CQS Michael Hintze hanno sborsato da soli qualcosa come 7,7 milioni di sterline in attività di sostegno e finanziamento al partito di David Cameron.