Il giornalismo era un bel mestiere. Invidiato, “beato lei dottore che gira il mondo e conosce tanta gente”. Illusione, ci sono giornalisti che non hanno lasciato il paesello e che non conoscono nessuno. Poi ci sono addirittura giornalisti che vivono come gli zombie di Romero o come i morti che camminano delle leggende e dei riti voodoo del caribe nero e creolo. Sarà l’imprinting di Minzolini, quel misto fra politica censurata e cronacaccia sangue-sesso-soldi, ma il Tg1 si porta sulle spalle una enorme responsabilità per quanto accaduto al campo Rom della Continassa. Poche ore prima della “fiaccolata di solidarietà” e della spedizione punitiva, il Tg1 (edizione delle 20,00 di sabato 10 dicembre) mandava in onda un servizio di Gian Mario Ricciardi che qui sintetizziamo: “La ragazza camminava spedita… viene seguita… un brivido di paura… caccia all’uomo… erano dei Paesi dell’est, puzzavano… uno dei due la stupra, l’altro rinuncia… i medici confermano… la rabbia del quartiere che ora chiede giustizia”. Non un dubbio, non una verifica, il cronista ci mette anche il carico della puzza (sudore? urina?).
Non sappiamo l’identità delle fonti di Ricciardi (carabinieri, infermieri, poliziotti?) e nemmeno ci interessa. I giornalisti esistono apposta per non credere al primo che passa, nemmeno se porta il camice o le stellette. Ma a Ricciardi non imputiamo tanto di aver preso il bidone, quanto l’uso smodato di aggettivi, di puzze, di scenari con strade buie, terrori che corrono lungo la schiena, stupratori a tempo pieno defilati negli angoli e pronti a colpire. E a Ricciardi vogliamo anche ricordare che non è un cronista qualunque, di una piccola testata di quartiere e alla ricerca di notorietà: è un giornalista del Tg1, di quella che, nonostante i tentativi di distruzione, resta una voce del servizio pubblico.
Com’è ovvio, il Tg1 non ha fatto ammenda, non ha chiesto scusa per aver collaborato ad eccitare gli animi diffondendo notizie non verificate. E’ riuscito a fare di peggio, a riportare sul suo sito – come se il quotidiano di Mario Calabresi fosse l’unico responsabile – le “scuse” della Stampa per un titolo: “Si cercano due Rom” che la stessa direzione del quotidiano torinese ha definito inutilmente razzista: “Ci scusiamo, non avremmo scritto: si cercano due torinesi o due astigiani”.
E, proprio sulla Stampa di lunedì 12 dicembre, Massimo Gramellini scrive dei “cerchi dell’impotenza”. Primo cerchio, una famiglia che impone alla figlia un controllo mensile ginecologico per sapere se è sempre vergine, non può stupirsi se poi la stessa, fatto sesso con il fidanzatino, si inventa lo stupro dei rom. Secondo cerchio: la comunità priva di soldi e di sogni, si improvvisa giustiziera perché senza cultura e senza anticorpi. Terzo cerchio, la rappresentante del Pd che marcia con la fiaccolata di solidarietà partecipa al piagnisteo collettivo quando toccherebbe proprio alla politica mediare e trovare soluzioni. Se Gramellini permette, ci aggiungerei un quarto cerchio: di noi giornalisti, che in mezzo a queste esplosive miserie sociali, culturali e politiche buttiamo una cicca accesa e passiamo oltre.