Peccato che la domenica non esca Cronaca qui – Torino, il quotidiano più letto in città dopo La Stampa. Peccato, perché sarebbe stato interessante vedere con quali piroette il giornale – noto per le sue posizioni intransigenti sugli «zingari» – avrebbe cercato di correggere il tiro, dopo aver sparato sulla prima pagina di sabato il titolo, a cinque colonne: «Quindicenne stuprata alle Vallette. Il fratello: “Sono stati due zingari”». Con quella citazione a rafforzare – se lo dice il fratello sarà vero, perbacco! – la perentorietà delle accuse e l’oggettività dei fatti: su cui peraltro gli autori dell’articolo (a pag. 6) non sembrano nutrire dubbio alcuno (e infatti incorporano la citazione nella loro narrazione, facendola propria: «Stuprata in strada da due zingari. La vittima, una ragazza italiana ecc.»).

Peccato, dicevo. Perché domenica abbiamo scoperto come sono andate realmente le cose. Ovvero, che la ragazza non è stata affatto stuprata: che si era inventata tutto, che gli «zingari» non c’entravano niente. E dire che sabato, a sfogliare anche l’altro quotidiano cittadino, La Stampa, sembrava tutto così chiaro, così acclarato: i colpevoli della violenza carnale erano senz’altro due «rom» che abitano nel «campo» della Continassa, alla periferia Nord di Torino. Una certezza fin dal titolo: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella», con quell’indicativo – «violentano» – a non lasciare spazio ad ambiguità o presunzioni di innocenza.

E invece no! La ragazza ritratta. L’accusa cade. I presunti colpevoli sono scagionati. Qualcuno – questa sì una certezza – ha preso una colossale cantonata. Tanto colossale che la redazione de La Stampa, per voce del suo caporedattore, ha dovuto ammettere, con un commento pubblicato sempre domenica, di essere «scivolata» – il giorno prima – su un «titolo razzista» (ovvero: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella»; ma vale la pena di leggerla per intero, l’excusatio).

Fa specie leggere un’autocritica così limpida. Perché càpita raramente, nel mondo dell’informazione nostrana. Ma non fa piacere. Meglio: non procura sollievo. Sia perché non è pratica diffusa, anche quando sarebbe – come in questo caso – necessaria. Sia perché, a ripensare a tutta la vicenda, l’indignazione non smorza: semmai monta. Per alcuni semplici motivi.

Primo. A seguito di una dichiarazione menzognera (presa per buona da tutti), si è scatenata una inconcepibile violenza squadrista e razzista ai danni di un gruppo inerme di persone. Una violenza nei fatti, gravissimi (il rogo del «campo»), nelle intenzioni (a leggere le cronache di ieri si apprende che alcuni dei «manifestanti» avrebbero dato fuoco, fosse dipeso da loro, a chiunque gli fosse capitato a tiro), nelle parole d’ordine. Una violenza che mette i brividi: per ciò che è avvenuto, e ciò che sarebbe potuto succedere.

Secondo. La menzogna stessa ricalca uno schema che si ripete. Perché acquisito, culturalmente accettato, pronto all’uso. Come faccio per far credere di aver subito una violenza efferata, in mancanza di testimoni? Facile: accuso chi nell’immaginario porta lo stigma sociale più pesante, chi è stato (da sempre) additato come la causa di tutti i mali, chi nella realtà non ha modo di difendersi, di avere voce (e quindi di contraddirmi): gli «zingari». Meglio se descritti in modo stereotipato («puzzavano da morire»), capace di far leva sui preconcetti di chi mi ascolta. Ricordate il delitto di Novi Ligure, dieci anni fa? Ricordate Omar ed Erika, le loro accuse agli albanesi, la ricerca collettiva di un «mostro» venuto dall’esterno, e la (con)seguente manifestazione della Lega contro gli «assassini albanesi»? Lo schema era, è simile. La menzogna attecchisce dove manca la cultura del dubbio: dove l’altro, l’alieno, l’estraneo ha sempre – per definizione, per «natura» – torto. E noi sempre ragione: non per la forza delle idee, per l’evidenza dei fatti, ma (spesso) soltanto per un chiuso, ossessivo, posticcio senso di «in-group», di appartenenza, di identità. In nome del quale siamo pronti alle risposte più rassicuranti. E pronti, se è il caso, anche a distorcere la realtà.

Terzo. L’iterazione dello stigma, appunto. Non è la prima volta che di fronte ad alcuni presunti crimini vengano accusati i soliti sospetti. In base non certo a riscontri, ma a leggende metropolitane, a dicerie di untori. Un esempio soltanto: le «zingare» rapitrici di bambini, che hanno affollato (e ancora affollano) le pagine di cronaca nera di giornali nazionali e locali. Anche se sappiamo – grazie ad analisi lucide come La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), di Sabrina Tosi Cambini – che dal dopoguerra a oggi sarebbe stato accertato un solo caso (uno solo!) di «rapimento» (e uso il condizionale perché quell’indagine, e quel processo, furono viziati – è stato evidenziato più volte – da tanti, troppi vizi di forma). Eppure la leggenda, la diceria diventa realtà oggettiva. E quindi stigma, condanna. A prescindere dai fatti. Al punto da negarli, i fatti, se non sono in linea con le supposizioni (si vedano alcuni incredibili commenti di lettori sul sito del Giornale).

Quarto. La colpevole leggerezza (o inconsapevolezza, per citare La Stampa) di chi (non) ha fatto informazione. Non ha verificato le fonti. E ha immediatamente gridato al lupo. Senza un minimo di rispetto per la parte accusata (che in uno stato di diritto dovrebbe godere della presunzione di innocenza fino a prova contraria). Di leggerezze – o direi, piuttosto, di porcherie – del genere è piena la cronaca, come documentano, vox clamantis in deserto ma tenacemente, i reporter di “Giornalisti contro il razzismo“, o gli attivisti di “Cronache di ordinario razzismo“. Ebbene, sarebbe ora che i giornalisti rispettassero – anche da noi, come avviene in molti paesi europei – un serio codice deontologico. E che chi sbaglia chieda scusa (sapendo che perseverare è, comunque, diabolico). Scriva e pubblichi rettifiche, con la stessa evidenza e visibilità con cui ha appiccato l’incendio dell’infamia. Si interroghi sul proprio mestiere, e sulle sue implicazioni. Si assuma le proprie responsabilità.

Quinto. Allarma, eccome, il circolo vizioso: sempre lo stesso (lo denunciava già, in Non persone, Alessandro Dal Lago dodici anni fa). La costruzione del capro espiatorio. La benzina sul fuoco – non solo metaforico – razzista. L’incompetenza di chi fa informazione. La creazione di un’allarme sociale ingiustificato: rieccolo, il “framework” della sicurezza: che tutto inquadra, tutto giustifica. L’idea della «giustizia fai da te», aberrante, è bene ricordarlo, in uno stato di diritto: con parole ferme, ne ha scritto ieri Chiara Saraceno su Repubblica. La mancanza di voci “contro”, a partire da quella dei senza voce, i «rom»: e voglio vedere quanti pubblicheranno il duro comunicato stampa della Federazione Romanì, a condanna delle violenze di sabato. E allarmano anche i dettagli, di questa costruzione del diverso. Forse inconsapevoli, ma rivelatori di un certo uso del linguaggio: e di una mancanza di critica, di attenzione, di precisione. Di una certa inspiegabile pigrizia. Anche su questa testata. Dove – probabilmente per questioni di (inutile, dannosa) variatio stilistica extracomunitario, rom e staniero sono stati usati come sinonimi (è il caso di questo articolo): perché anche se italiani, o comunitari – i rom rumeni – gli «zingari» sono nel nostro immaginario sempre altri, estranei.

Un’ultima considerazione. Non mi interessa offrire il destro a inutili, qualunquiste discussioni in termini di «pro» o «contro» gli «zingari». Mi interessa, semmai, riflettere sui fatti (accertati). Sulla loro distorsione, colpevole o distratta: ma l’esito è drammatico comunque. Su una cattiva informazione che diventa – e alimenta – una cattiva opinione pubblica. Su cliché che diventano stigma, odio, violenza. Sulla necessità, in ultima analisi, di responsabilizzarsi: come operatori dell’informazione, come lettori, come cittadini. Per non cadere, sempre, nei soliti – ma evitabili – tranelli.

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