Per Sergio Marchionne l’accordo del gruppo Fiat rappresenta “una svolta storica”. Su questo punto ha ragione perché l’intesa conclude quel percorso avviato con il piano Fabbrica Italia e passato attraverso le “battaglie” di Pomigliano, prima e di Mirafiori, poi. Marchionne ottiene l’obiettivo che si era dato quando impose l’accordo separato di Pomigliano e il relativo referendum: avere un contratto speciale, valido solo per i propri stabilimenti, privo delle strettoie che impongono le regole di concertazione a cui è ancora sottoposta la Confindustria dalla quale, non a caso, la Fiat è uscita.
Nelle aziende della famiglia Agnelli, il sindacato ha ormai come controparte un industria che ha sedi in tutto il mondo che, come dice il presidente John Elkann, conserva il suo cuore in Italia ma che sempre più ha spostato il cervello negli Stati Uniti. L’intesa siglata, con la collaborazione decisiva dei sindacati, è cucita addosso alle caratteristiche globali dell’azienda Fiat ma soprattutto alla sua politica di sviluppo ed espansione che poggia non tanto sulla capacità di innovazione dei prodotti quanto sulla maggiore flessibilità del lavoro. Nel gruppo Fiat, da gennaio 2012, saranno ridotte le pause, gli straordinari saranno portati da 40 a 120 ore annue, i turni a 18 su sei giorni ma soprattutto saranno introdotte limitazioni per le assenze malattia e sanzioni per chi viola l’accordo stesso. Difficile capire quanto tutto questo possa aiutare a vendere più auto. Il progetto Fabbrica Italia, del resto, è stato messo nel cassetto dopo che la Consob si è azzardata a chiedere maggiori chiarimenti e le prospettive industriali dell’azienda restano nere. Marchionne ha puntato alla produzione di 6 milioni di autovetture nel 2014 ma al momento il gruppo Fiat-Chrysler è fermo a 4 milioni e la recessione deve ancora venire. Nuovi modelli non se ne vedono e gli stabilimenti sono falcidiati dalla cassa integrazione.
Marchionne ottiene, per il momento, soprattutto un risultato politico, l’estromissione della Fiom dalle sue fabbriche. Con il nuovo contratto, che il sindacato di Landini non ha firmato, la Fiom non avrà infatti diritto alle prerogative sindacali stabilite dallo Statuto dei lavoratori: delegati, distacchi, permessi, assemblee, spazio nelle bacheche aziendali e nemmeno la trattenuta sindacale in busta paga. Il sindacato più rappresentativo del gruppo viene di fatto cancellato da un giorno all’altro. Logico, quindi, che Maurizio Landini parli di lesione democratica oltre che di peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
La “questione democratica” in effetti si pone in forma evidente. Come è possibile che a Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco si siano svolti dei referendum e invece gli oltre 80 mila lavoratori del gruppo non possa esprimersi sul contratto? Perché privarli di un voto di ratifica?
L’accordo apre poi un’altra partita nel campo delle relazioni sindacali. Per evitare di essere esclusa dagli stabilimenti Fiat, la Fiom chiede al governo una riforma dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che regola la rappresentanza sindacale. Secondo tale norma, hanno accesso alla rappresentanza solo i sindacati che siglano gli accordi aziendali nonostante la loro rappresentatività. La Fiom chiede di ripristinare questo aspetto ma la sua richiesta ha già prodotto una ferma reazione della Fiat che non accetterebbe mai una tale riforma. Solo che, allo stesso tempo, il governo vuole rivedere l’intero pacchetto del mercato del lavoro con riforme dell’articolo 18 dello Statuto, una maggiore flessibilità in uscita con la probabile introduzione di un contratto unico di inserimento, un reddito garantito con la riforma degli ammortizzatori sociali. Tutto questo si tiene e la modifica dell’articolo 19 si inserirebbe in questo contesto. La Confindustria sarebbe d’accordo e non è detto che la Cgil e la stessa Fiom non siano disponibili a una discussione complessiva. Da qualsiasi punto lo si guardi, il contratto Fiat apre una nuova stagione di relazioni sindacali e sarà propedeutico a modifiche strutturali del mercato del lavoro.