I rappresentanti di 195 paesi riuniti a Durban ci hanno messo 36 ore in più rispetto ai dodici giorni previsti per risolvere il rompicapo politico-diplomatico più importante dei nostri tempi: la riduzione globale delle emissioni e la lotta ai cambiamenti climatici.

Molti pensano sia in qualche modo una vittoria della Cina (e dei paesi in via di sviluppo). Di fatto si è arrivati a un’intesa che prevede la stipula di un trattato globale per la lotta ai cambiamenti climatici entro il 2015 che entrerà in vigore solo nel 2020. Quindi la Cina ha ancora davanti poco meno di un decennio di crescita economica prima che venga sottoposta alle stesse regole dei paesi sviluppati. Non è un caso che il negoziatore cinese Su Wei abbia dichiarato al China Daily che le decisioni prese rappresentano «un grande risultato» dopo «una delle più prolisse esperienze» che ha vissuto in vent’anni di negoziati sui cambiamenti climatici.

In perfetto stile cinese, si è giunti dunque a un accordo che prevede ancora due pesi e due misure: i paesi in via di sviluppo non possono compiere sforzi paragonabili a quelli del primo mondo. Anche se è proprio questo tipo di politica che ha portato all’impasse attuale.

Il protocollo di Kyoto, infatti, a oggi è l’unico strumento internazionale giuridicamente vincolante che obblighi gli stati a contenere le emissioni di gas serra. Ma il suo fallimento è sotto gli occhi di tutti. Gli Stati Uniti, all’epoca il più grande produttore di gas serra, non hanno mai ratificato l’accordo, mentre Cina, India e altri paesi in via di sviluppo, non erano tenuti a tagliare le proprie emissioni perché – giustamente – non considerati tra i principali responsabili della produzione di gas durante il periodo della prima industrializzazione.

Oggi però la Cina ha superato gli Stati Uniti per emissioni di Co2, ma è al tempo stesso all’avanguardia sulle cosiddette tecnologie verdi. Il XXII piano quinquennale, inoltre, prevede per i prossimi cinque anni l’attuazione della cosiddetta Rivoluzione pulita. La volontà del Partito è quella di trasformare l’emergenza ambientale in un business da gestire e padroneggiare.

La Cina ha dunque ancora un decennio per provare a realizzare gli obiettivi che si è prefissata, ma bisogna comunque fare molta attenzione, come spiega il prof. Yang Fuqiang, esperto in clima ed energia dell’Ufficio di Pechino del Consiglio per la difesa delle risorse naturali, al South China Morning Post: «Si prevede che nel 2020, le emissioni di carbonio della Repubblica popolare saranno superiori a quelle di Stati Uniti e Unione Europea messi insieme». E questo porterà i negoziati ad affrontare una nuova sfida e – forse – a una nuova divisione dei blocchi: «La Cina continua a dichiarare di rappresentare gli interessi delle nazioni più povere, ma apparentemente questi sono in contraddizione con gli interessi nazionali».

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