Un lavoro che ha richiesto tre anni per essere completato…
«Sì. Ho iniziato nel 2008 mettendo in scena il testo di Molière, che ha debuttato al Festival delle Colline Torinesi 2009. Poi è stata la volta de I Cavalieri. Aristofane cabaret con l’esordio al Castel dei Mondi Festival di Andria 2010, stesso luogo dove quest’anno è andato in scena per la prima volta Atto finale. Flaubert, ispirato dal Bouvard e Pécuchet, il suo romanzo incompiuto».
Solo questa anteprima per la terza parte di questa sua opera?
«Ad Andria c’è stato solo il tempo di una replica. Per questo a gennaio lo riprenderemo come fosse una prima assoluta all’ITC Teatro, da mercoledì 18 a domenica 22 e da mercoledì 25 a domenica 29 gennaio, più due pomeridiane il 21 e il 28 gennaio».
Quindi anche i critici avranno avuto per questo motivo una certa difficoltà a poter giudicare la Trilogia nella sua interezza.
«Diciamo che, avendo fatto una sola replica, non è stato visto da tutti i critici che votano al Premio Ubu, se è questo che mi sta chiedendo. Per cui posso immaginare che qualcuno ha riferito agli altri, ne ha parlato bene, e da qui il premio».
Non potrebbe essere anche un premio che viene da lontano essendo stato già finalista in precedenti edizioni dell’Ubu?
«Con Cincali arrivai fra i finalisti per “Drammaturgia” insieme a Stefano Bonazzi, l’altro autore del testo, mentre con Odissea ero nei finalisti per la categoria “Miglior attore dell’anno”. In entrambi i casi però il grosso della critica arrivò dopo la partecipazione al premio. Forse i giurati mi stanno dicendo “non sei una meteora”. Oppure, cosa ancora più importante, che ho fatto uno spettacolo diverso, che ho fatto bene a cambiare, a rischiare non fermandomi al successo ottenuto in precedenza».
Lei parla dei due spettacoli sull’emigrazione/immigrazione italiana, Italiani cincali e Emigranti espress?
«Esatto. Pensi che Cincali gira da otto anni e ad oggi ha collezionato 800 repliche. Potevo restare incastrato in quel ruolo, diventare parte della catena Paolini-Celestini, e sarebbe stato controproducente per il mio lavoro di autore e di regista. Nella Trilogia ho messo in scena più attori, ho creato interazioni fra loro e poi io sono essenzialmente un animale da palcoscenico».
La disgregazione del mondo contemporaneo rintracciabile in questa sua ultima opera prende per statuto dai classici, da grandi maestri del teatro e della narrativa. Perché questa scelta di guardare al passato per parlare del presente?
«Credo intanto che il senso della cultura sia avere e conservare cultura. Significa prendere dal passato gli strumenti per indagare il presente e immaginarsi un futuro. Il sapere da dove vengo per capire dove posso andare, credo faccia parte della cultura. Se ci viene a mancare questo, diventiamo come gli Stati Uniti, un popolo senza storia e senza memoria oltre che una democrazia finta dove ancora alberga la pena di morte».
Quindi è soprattutto una questione di memoria storica e culturale che l’ha portata a confrontarsi con la narrativa ottocentesca e ancor più col teatro classico?
«Si deve prendere dal teatro classico – che io preferisco chiamare “universale” perché parla a noi di cose che ci riguardano molto da vicino. Si devono cioè prendere le tematiche di questi grandi autori per poi farle proprie. Nella trilogia io ho riscritto completamente Aristofane come Molière come Flaubert, ma cercando sempre di mantenerne lo spirito. Questo significa ricordarsi da dove si viene. Io vengo da Lecce, per cui posso dire che Aristofane mi appartiene. Ma mi appartiene anche Molière».
E Flaubert?
«Flaubert scrive come un narratore del Novecento, anzi lo anticipa il Novecento. Con Bouvard et Pécuchet, il romanzo incompiuto che è alla base di Atto finale, anticipa Beckett, Ionesco, Freud. Allora, per chiudere il discorso, non vedo perché io non debba partire da ciò che è il mio mondo, la mia cultura, dalle persone che mi hanno regalato qualcosa, per scrivere nuova drammaturgia. E poi questi erano autori che rischiavano in proprio per quanto dicevano. Rischiavano la galera o di essere malmenati».
Rischi che non esistano più al giorno d’oggi…
«Diciamo che non esiste più nello spettacolo teatrale. Si rischia di più se vai in televisione e denunci qualcosa. In questo senso sta diventando pericolosa anche la rete. Ma lei pensi invece come, all’epoca di Aristofane, tutta la società ateniese dei non schiavi si muoveva per vedere le Teatromachie. E se c’era tutta Atene, era come ci fosse la nazione al completo. Così accusare direttamente – cosa che avveniva – uno dei presenti, aveva un impatto enorme. Stessa cosa per Moliere. Scriveva per il Re Sole e metteva in scena le sue opere davanti a nobili e cortigiani. Prendeva in mezzo direttamente ministri, medici di corte… Fino a qualche settimana fa sarebbe stato come dire si va ad Arcore davanti agli stati maggiori dei partiti di governo per prenderli in giro».
In che direzione si sta muovendo dopo la Trilogia?
«A settembre andrà in scena a Spoleto la mia prima regia di un’opera lirica. Devo scrivere un libretto di due atti, uno per spettacolo diciamo. Questo perché il lavoro è destinato a due compositori contemporanei, che creeranno la partitura musicale».
Ha già deciso quale sarà il tema di questa opera lirica?
«L’argomento mi è stato richiesto esplicitamente. Il libretto si centrerà sulla doppia faccia dell’emigrazione/immigrazione. Emigrazione italiana verso altri paesi e immigrazione da altri paesi in l’Italia. Finito questo impegno, ho deciso di non fare nulla per un anno così da evitare di innamorarmi delle cose che ho già detto».
di Sergio Rotino